La dicotomia che contrappone un «Occidente democratico» ai dispotismi degli «altri» viene quotidianamente ripetuta, in forme e modalità diverse, da larga parte dei nostri media, così come da alcuni docenti universitari.

È una narrazione rassicurante, ben accolta anche a livello politico, che ha il difetto di ignorare troppa storia, nonché di richiamare alla mente i «giardini» di Josep Borrell: «L’Europa è un giardino», ha dichiarato di recente l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli Affari Esteri, «il resto del mondo una giungla».

Non c’è dubbio che i presunti “valori dell’Occidente” garantiscano tangibili e reali diritti e benefici ai cittadini di larga parte del Nord America e dell’Europa, sebbene numerose minoranze etniche e/o religiose, nonché alcune fasce sociali, risultino strutturalmente discriminate e/o poco tutelate.

PARLIAMO comunque di una piccola percentuale della popolazione mondiale (circa il 16% del totale), di cui fa parte anche un Paese sovente soggetto a ingerenze esterne come l’Italia, dove sono presenti almeno 59 basi militari gestite a tutti gli effetti da Washington (con 13.000 soldati), comprese quelle di Aviano e Ghedi: godono di extraterritorialità e ospitano almeno 70 bombe nucleari.

Agli occhi di una larga percentuale del resto del mondo, i “valori dell’Occidente” e il sistema delle relazioni internazionali guidato dagli Stati Uniti non portano alcun beneficio.

Al contrario, in tali contesti il cliché dell’Occidente democratico continua sovente a declinarsi in invasioni (non di rado attuate per difendere specifiche “sfere d’influenza”), commercio di armi (oltre il 70% delle armi mondiali viene prodotto da paesi occidentali), sfruttamento delle materie prime (si veda, tra decine di altri esempi, al caso della Repubblica Democratica del Congo), inquinamento (un paese come lo Sri Lanka, la cui aspettativa di vita è molto simile a quella degli Stati Uniti, utilizza circa l’88% in meno di risorse rispetto agli Stati Uniti ed emette circa il 94% in meno di emissioni su un base pro capite), sanzioni (che colpiscono civili e quasi mai i regimi considerati “sgraditi” all’Occidente) e molto altro.

Valutare «la democrazia dell’Occidente» solo negli Stati Uniti e nei paesi che ricevono benefici (più o meno consistenti) dal sistema di relazioni internazionali guidato da Washington rappresenta lo specchio di un solipsismo ideologico che nega le cicatrici, i diritti e la storia di miliardi di esseri umani considerati «altri» da «noi».

FOCALIZZARSI solo sulla ricchezza dei paesi che compongono il “giardino-Europa” o quella della “patria della democrazia” (gli Stati Uniti) è una utile scorciatoia che ignora anche molteplici dinamiche radicate nel presente.

Il sistema internazionale che consente – a chi entra a far parte di organizzazioni come ad esempio la Nato – di arricchirsi attraverso il controllo delle economie e delle risorse naturali di larga parte di quegli stessi esseri umani considerati «altri» da «noi», rappresenta in questo senso l’antitesi dei principi alla base di ogni democrazia compiuta.

E ciò è visibile tanto su un piano statale (basti pensare, per fare un esempio, alle oltre 800 basi militari statunitensi in oltre 80 paesi del mondo), quanto più micro-economico.

Tra molto altro, prova ne è il fatto che i guadagni derivanti dalle risorse naturali (petrolio, oro, gas, ecc.) presenti nella quasi totalità dei Paesi africani e in un numero significativo di Stati del Mediterraneo orientale vengono ancora oggi trasferiti attraverso società off-shore che, in larga misura, sono collegate a imprese e uomini d’affari operanti in Europa e in America.

COME HANNO confermato i documenti emersi dai Panama Papers, dai quali nel 2019 è stato tratto l’omonimo film diretto da Steven Soderbergh, oltre 1400 società anonime riconducibili a molteplici paradisi fiscali vengono utilizzate per prosciugare le ricchezze naturali di alcuni dei paesi più ricchi (per risorse naturali e umane), ma al contempo più poveri (a causa, in primo luogo, della connivenza tra élite locali corrotte e stati e uomini d’affari occidentali), del mondo.

Nell’eterna lotta tra il Bene e il Male sovente vince la lotta. Quest’ultima, nel nostro tempo, non dovrebbe essere individuata in facili dicotomie che parlano alla pancia (e dunque agli istinti) delle persone, bensì nelle cause strutturali e perduranti che consentono a un piccolo spicchio di umanità di sfruttare e arricchirsi sulle spalle di miliardi di «altri», e di auto-attribuirsi un senso di superiorità morale che ha motivo di esistere solo se ci si limita a guardare al proprio «giardino».

* Docente di Storia contemporanea all’Università di Torino