Nobel, fra identità e collettive celebrazioni
Express La rubrica delle culture che fa il giro del mondo e che oggi si sofferma sulla percezione ed evoluzione di un riconoscimento ambìto che ha diverse ricadute, non solo singolari ma delle comunità di riferimento
Express La rubrica delle culture che fa il giro del mondo e che oggi si sofferma sulla percezione ed evoluzione di un riconoscimento ambìto che ha diverse ricadute, non solo singolari ma delle comunità di riferimento
Di solito gli incontri letterari, soprattutto se i protagonisti sono autori affermati, seguono un copione preciso: domande che si sforzano di essere argute, educate e originali, e risposte in cui il probabile fastidio per dover ripetere sempre le stesse cose è nascosto da uno spesso strato di amabilità.
A volte, però, il copione viene disatteso: è successo giorni fa al festival Filit di Iasi, in Romania, durante il dialogo con lo scrittore tanzaniano, naturalizzato britannico, Abdulrazak Gurnah, la cui fama globale è esplosa nel 2021, quando gli è stato assegnato il Nobel per la letteratura. Contravvenendo le regole del «politicamente corretto» e pure del vecchio galateo, qualcuno ha chiesto a Gurnah se non gli era venuto il dubbio che il premio fosse legato anche alla sua provenienza africana. Con mirabile aplomb lo scrittore ha risposto che a quanto gli consta la commissione del Nobel valuta i testi e che personalmente si augura che la sua opera si inserisca bene fra quelle che in oltre un secolo hanno ricevuto il più famoso fra i riconoscimenti letterari.
L’episodio si può rubricare alla svelta tra gli inciampi in cui possono incorrere senza colpa gli organizzatori di un festival, e tuttavia vale la pena citarlo, perché rivela una contraddizione che caratterizza tutti i premi letterari, e in particolare il Nobel, con la sua aura di onorificenza planetaria. La mette in risalto con acume Alex Taek-Gwang Lee, docente di Cultural Studies alla Kyung Hee University, in un articolo uscito su e-flux.
Lo spunto, in questo caso, deriva dalla quantità di complimenti e felicitazioni ricevute da Lee all’indomani dell’assegnazione del Nobel alla sua connazionale Han Kang, un fenomeno – nota lo studioso – che «denota qualcosa di più profondo della pura confusione: come le conquiste culturali diventino marcatori di identità condivisa, trasformando i trionfi individuali in celebrazioni collettive». Il premio Nobel, scrive Lee, riflette più degli altri «la perdurante tensione fra nazionalismo e cosmopolitismo, una dicotomia le cui radici risalgono al pensiero illuminista».
In questo senso il gran rifiuto del premio di Stoccolma da parte di Jean-Paul Sartre nel 1964 non va letto solo come «un gesto personale, ma come una precisa dichiarazione d’intenti per evidenziare il rapporto fra creazione artistica e riconoscimento istituzionale». Molti anni dopo, Ursula Le Guin (che tra l’altro nel ’76 disse di no al Nebula Award per protesta contro l’esclusione di Stanislaw Lem dai Science Fiction Writers of America) avrebbe proposto ironicamente la creazione di un Premio Sartre per i rifiuti dei premi, citando d’altro canto il caso di José Saramago, che invece il Nobel lo aveva accettato, per mostrare che fra riconoscimenti letterari e integrità politica e morale non c’è per forza di cose conflitto.
L’assegnazione del Nobel a Han Kang, però, è la prova, secondo Lee, di quanto il groviglio sia stretto: da un lato abbiamo un paese, la Corea del Sud, per cui il premio dell’Accademia di Stoccolma era diventato «una missione nazionale per ottenere un riconoscimento culturale globale»; dall’altro c’è un’autrice che, prima di essere scoperta su scala internazionale, era stata emarginata perché la sua opera «non rispecchia le aspettative convenzionali della ‘letteratura nazionale’ in termini di stile, temi e impostazione».
In questo senso «l’ansia dell’establishment culturale sudcoreano di rivendicare il successo di Han Kang come un trionfo dell’infrastruttura letteraria nazionale feticizza la letteratura come strumento di prestigio del paese piuttosto che apprezzarla come forma d’arte». Un paradosso che, senza troppo sforzo, può valere pure fuori dai confini della Corea del Sud.
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