Una scena da «No Sleep Till»
Visioni

«No Sleep Till», andirivieni liquido delle apparenze

Una scena da «No Sleep Till»

Cinema Il film di Alexandra Simpson nella rassegna «Venezia a Roma», una ragazza e la malinconia della perdita. Proiezioni il 27 settembre al Giulio Cesare e il 29 al Nuovo Sacher

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 26 settembre 2024

No Sleep Till di Alexandra Simpson, proveniente dalla Settimana della Critica, e da una Florida fluida (anche fluo), fremente, è un film che attinge all’immaginario di certo cinema indipendente americano. Anzi, sembra assumerne proprio le procedure, la messa in scena che erige la corposità, la complessità dell’immagine sulla solidità dell’acqua: Promises Written in Water era il titolo di un film-fantasma di Vincent Gallo, fatto scomparire dallo stesso regista dopo la proiezione veneziana nel 2010. Tutta una promessa di senso inscritta nella fibra transeunte dell’acqua; la messa in scena che non può che inscenare l’infrazione della scena, l’estrema libertà della sostanza in fermentazione che fa l’immagine, come arrivata lì, nel quadro, per caso (come un tornado), e così fibrillante, mormorante.

C’È QUALCOSA di Lerry Clark, qualcosa di Gummo o del Van Sant di Gerry, di Elephant, di Last Days, fino all’ultimo Gallo, agli ultimi due Gallo, in questo film bellissimo e disarmato, dolente e renitente (anche tenero) scritto sull’acqua, nella misura di un’umanità che sembra fuggire dalla tempesta (con tutto il suo portato metaforico) e allo stesso tempo sentirne l’attrazione magnetica, il fasto selvaggio e ctonio del fenomeno. Quello straordinario e bizzarro pensatore che fu Henry Fool lo chiamerebbe «uno sturm und drang di fondo»: lampi e grumi catramosi (nei video del cacciatore di tempeste) intorno al nerbo nero che infuria sulla crosta della terra desolata.

Il film di Alexandra Simpson sarà a Roma questa settimana all’interno della rassegna Venezia a Roma, occasione per tornare su uno dei film migliori visti alla scorsa Venezia 81, per guardarci dentro, entrare nella sua temperie di vento, acquate e tempeste; nella sostanza acquosa, languente in cui sembrano galleggiare personaggi alla deriva, come ombre stagnanti in uno scenario spettrale: e quando un film s’eleva a questa dimensione fantasmatica, vuol dire che sta attingendo alla fonte stessa del cinema. A partire dalla ragazza dagli occhi blu che sin dall’inizio nuota in una piscina, vi galleggia a fior d’acqua, ai bordi del quadro; si muove nello spazio dell’inquadratura in preda a una malinconia che viene dalla perdita, da un senso atavico di desolazione: non è tanto l’addio di un ragazzo, del suo presunto ragazzo che prima scorazzava su di uno skate in sottofondo dream-pop, a renderla laconica e malinconica, quanto forse la coscienza di una lacerazione presente in tutte le cose (tanto più in quelle abbandonate), nella luce slavata, cadente al mattino, in quella opprimente dei lampioni la sera; e proprio nel tempo, nella catastrofe del tempo: come se ci fosse qualcosa che manca nel tempo (il tempo di un ultimo sguardo, il tempo di un saluto sull’uscio scricchiolante di un motel; di una fuga non si sa bene se al di là o dentro la tempesta); come se il tempo che passa fosse testimonianza costante di ciò che da sempre manca. In No Sleep Till la sostanza, il senso del tempo sta nei rumori di fondo (è tutto un film di sottofondi presenti, emergenti), nei murmuri brulicanti, le canzoni provenienti da chissà dove mentre diventano eco, macchia sonora attagliata all’aria.

LA TROMBA languente di una nenia mostra il tramonto rossigno, sanguigno, o scocca l’inizio della sera più triste della terra; e le voci gracchianti che arrivano dalla radio o da un altoparlante, tutto il materiale sonoro non fa che dire di una perdita, di una lontananza verso cui vanno le cose, le figure spettrali, le particelle di luce pronte a perdersi nell’estremo buio. E se questo sottofondo fonico, anche fonosimbolico, è testimonianza di perdita, forse anche tentazione a perdersi in una sorta di «tedio che duri infinito», andando incontro al turbine di polvere e nuvolaglia del tornado; l’immagine, il montaggio interno all’immagine, la fotografia magnifica di Sylvain Marco Froidevaux, i colori, i neon fluorescenti riflessi sull’ennesimo specchio d’acqua, insomma tutta la dimensione visuale sembra quasi voler trattenere le cose dentro all’inquadratura, dentro le possibilità dell’occhio di afferrarle una volta per tutte, definendole, dandogli profondità di campo, corporeità, anche se il più delle volte è la corporeità del flutto. Corpi che si reggono sulle fondamenta acquatiche del segno: da una parte, sullo sfondo, la volontà di andare, di perdersi, e dall’altra, sulla superficie luccicante dell’immagine, l’istinto a restare, o a tornare, afferrando la sostanza delle cose, guardandole nella loro nitidezza. Questo sembra essere No Sleep Till: andirivieni delle apparenze, dell’apparire dentro l’esperienza; soglia, vagare come spettri, come ombre, in questo limine esaltante, straziante.

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