No al «turismo sociale» e ingressi limitati. Quando il bersaglio sono i cittadini Ue
Chiusure identitarie La Svizzera ha detto no alla libera circolazione, la Gran Bretagna promette di ridurre gli ingressi, Austria e Norvegia sognano il referendum
Chiusure identitarie La Svizzera ha detto no alla libera circolazione, la Gran Bretagna promette di ridurre gli ingressi, Austria e Norvegia sognano il referendum
La Commissione europea ha reagito con preoccupazione al risultato del referendum svizzero dello scorso febbraio, che con una leggera maggioranza ha limitato la libera circolazione anche dei cittadini Ue nella Confederazione elvetica, con l’obiettivo di imporre delle quote. La Svizzera non è nella Ue, ma appartiene allo spazio Schengen, che riconosce il diritto a circolare liberamente. Berna è stata minacciata di ritorsioni. Ma l’esempio svizzero sta facendo degli emuli anche all’interno della Ue: in Gran Bretagna David Cameron ha promesso di ridurre l’immigrazione di «decine di migliaia» di ingressi, in Austria la destra populista sogna un referendum, così come la Norvegia (che non è nella Ue ma appartiene a Schengen). Dopo le campagne contro l’immigrazione dei migranti di paesi terzi, che del resto continuano, il cerchio si stringe e il bersaglio sono ormai i cittadini Ue.
Dal 2004, cioè dal primo allargamento a est, il movimento dei cittadini europei all’interno dello spazio Ue è aumentato. Il primo gennaio scorso sono state levate le ultime restrizioni, che riguardavano i rumeni e i bulgari in nove paesi (tra cui Francia, Germania, Gran Bretagna, Belgio). Secondo le ultime statistiche, ci sono 14 milioni di europei che risiedono in un paese della Ue che non è quello di nascita, pari al 2,8% della popolazione. La crisi ha spinto e sta spingendo molti a cambiare paese: dal 2008, per esempio, ben 300 mila irlandesi hanno lasciato il paese (su una popolazione di 4,5 milioni di abitanti).
Il Portogallo ha ritrovato cifre simili a quelle degli anni ’60, dalla Spagna sono partite più di 200mila persone, la Germania ha contato 620mila arrivi da Polonia, Romania, Bulgaria, Italia, Spagna e Grecia.
Per legge, ogni cittadino Ue ha il diritto di soggiorno per tre mesi. Poi ogni stato impone le sue regole. E queste stanno diventando sempre più puntigliose: per esempio, l’anno scorso in Belgio a 2712 cittadini Ue è stato ritirato il permesso di soggiorno, dopo tre mesi di disoccupazione, perché rappresentavano un «carico irragionevole» per il sistema di sicurezza sociale. Nel 2010 era successo solo a 343 persone. In Francia è toccato a 10.793 cittadini Ue, contro 3213 nel 2009. La Gran Bretagna denuncia il «turismo del welfare», accusando dei cittadini dei paesi più poveri della Ue di venire solo per ottenere vantaggi sociali, «per ogni 100 immigrati che arrivano in Gran Bretagna, 23 inglesi vengono estromessi dal mercato del lavoro» ha denunciato un ministro. Cercando di ribaltare questa preoccupazione in un vantaggio per i lavoratori, la Francia è riuscita ad ottenere maggiori garanzie per i lavoratori distaccati, rispondendo così alla preoccupazione sollevata dalla concorrenza di forza lavoro sottopagata. In Germania, dove la Csu (alleata della Cdu di Merkel) sostiene che i migranti Ue «minano le prestazioni di Hartz IV», i linguisti hanno eletto il termine «Sozialtourismus» come il peggiore del 2013, a conferma del fatto che si diffonde poco per volta, esasperato dalla crisi, il rigetto degli altri cittadini Ue. Eppure, per il 56% dei cittadini Ue la libera circolazione resta la realizzazione più positiva della costruzione comunitaria. All’interno della Ue siamo evidentemente lontani dai metodi di Frontex e Eurosur applicati per respingere i migranti non comunitari, dalle regole di Dublino per i rifugiati e delle «direttive ritorno», dal subappalto della repressione affidato a paesi terzi, ma poco per volta con la crisi torna il sospetto verso l’altro cittadino europeo, che ci riporta a situazioni di rigetto esistenti prima della nascita della costruzione comunitaria.
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