Economia

Nixon ha l’oro in tasca

Nixon ha l’oro in tasca

Shock economy Il 15 agosto del 1971 gli Usa abbandonano il golden standard: inizia l’era del capitalismo finanziario. Milton Friedman fu il suo profeta. Le crisi e gli esuberi permanenti la conseguenza

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 14 agosto 2021

Quel giorno era venerdì 13, qualcuno avrebbe dovuto pensarci. Ma sul prato sud della Casa Bianca, dentro l’elicottero Sikorsky SH-3 Sea King non c’erano superstiziosi tra i passeggeri. Erano tutti in attesa: il capo della Federal Reserve Arthur Burns, il ministro del tesoro John Connally e il suo sherpa preferito Paul Volcker, il ministro del bilancio George Shultz e un’altra manciata di altissimi dirigenti del governo americano.

INFINE L’ULTIMO PASSEGGERO salì la scaletta e l’elicottero col tettuccio bianco prese ufficialmente il nome di Marine One. Il presidente Richard Nixon era a bordo. Il pilota puntò a nord-ovest e dopo meno di 100 chilometri cominciò la discesa su Camp David. Fino a quel momento gli Usa si erano impegnati a convertire i loro dollari in oro dietro semplice richiesta: chiunque entrasse in banca con 35 pezzi di carta verdi con la faccia di George Washington sarebbe uscito con un’oncia d’oro.

Era il gold exchange standard, l’economia creata alla conferenza di Bretton Woods durante la seconda guerra mondiale (un anno dopo, Hiroshima e Nagasaki sarebbero state bruciate vive da un’arma mai vista). John Maynard Keynes era arrivato a Bretton Woods con il suo «bancor» – una moneta ideale interbancaria – ed era stato spazzato via: tutte le monete dei paesi industrializzati agganciate al dollaro, il dollaro agganciato all’oro, e per far funzionare il tutto ecco due nuove istituzioni chiamate Banca mondiale e Fondo monetario internazionale, che col tempo abbiamo tutti imparato ad amare.

DOPO TRE GIORNI di riunione segreta a Camp David, Nixon annunciò al mondo che l’oro se lo sarebbe tenuto, ben chiuso a Fort Knox. I pezzi di carta verde erano solo pezzi di carta verde, forse la faccia del generale Washington ora sogghignava un po’. Era il 15 agosto del 1971. In Italia ci fu la marcia della maggioranza silenziosa, il manifesto diventava quotidiano, fare pubblicità agli anticoncezionali non era più illegale.

Nel mondo la Intel vendeva il suo primo microprocessore, Eduardo Galeano pubblicava «Le vene aperte dell’America latina» e John Lennon Imagine. E i bombardieri Usa aiutano il Vietnam del sud a invadere il Laos. Senza avere un piano preciso, senza alcun serio studio sulle conseguenze, senza averci nemmeno pensato granché, i capi della principale potenza economica mondiale mandarono a morte il cambio del dollaro con l’oro – e si fecero fare giacche a vento ricordo col nome e la data sul bavero. Potevano far saltare in aria il mondo, come quando i fisici del Progetto Manhattan scommettevano tra loro se quel prototipo a Los Alamos avrebbe o meno incendiato l’universo – e facevano sul serio: quello che raccoglieva le puntate era Enrico Fermi… .

INVECE IL MONDO non esplose. Cambiò. Nixon era paranoico e registrava tutto, ad alcuni di quei nastri venne impiccato nello scandalo Watergate, altri costituiscono la colonna sonora del «più grande accordo monetario della storia del mondo», come disse con modestia. Rivelano che non gli importava nulla di distruggere l’economia nata a Bretton Woods, oppure il gold exchange standard. Solo, non voleva essere importunato dai tentativi di difenderlo. C’erano le elezioni del ’72 da vincere, l’economia americana doveva andare col vento in poppa e ogni altra considerazione era secondaria.

Un frammento di dialogo tra Nixon e il capo del suo staff H.R. Haldeman, catturato dai registratori sempre accesi della Casa Bianca, fotografa bene la situazione. È citato in «Three days at Camp David» di Jeffrey E. Garten, professore emerito di management a Yale, una carriera tra il governo americano e i superfinanzieri Lehman Brothers (spesso la stessa cosa, finché nel 2008 Lehman Brothers ha fatto la più grande bancarotta della storia americana).

H. R. Haldeman: Ha avuto il rapporto di ieri sera sugli inglesi che hanno svalutato la sterlina?

Nixon: Non mi sembra, quindi l’hanno fatto? Hanno svalutato? Non mi interessa, niente che io possa farci.

Haldeman: Il presidente della Federal Reserve è preoccupato per le speculazioni sulla lira.

Nixon: Beh, non mi frega un accidente della lira.

I don’t give a shit about the lira. O di nessun altra divisa o paese, se è per questo. Mi frega di non entrare in recessione, tenere bassa la mia inflazione, battere McGovern – questo interessava a Nixon. E il suo ministro del tesoro John Connally, un brillante texano che aveva fatto l’assistente di Lyndon Johnson, il ministro della marina di Kennedy e il governatore del Texas, possedeva una singola convinzione finanziaria, che illustrava così: «Voglio fottere gli stranieri prima che loro fottano noi».

IL FATTO è che per finanziare la guerra del Vietnam in cui si erano impantanati, gli Usa stampavano dollari a profusione e il golden exchange standard li aiutava a esportare la loro inflazione verso paesi costretti a comprare dollari e pagarli cari, nonostante ne circolassero sempre di più. Finché la Francia di De Gaulle si stufò, denunciò il «privilegio esorbitante» americano e ordinò alla marina militare francese di stivare tutti i dollari del paese e attraversare l’Atlantico per incassarli.

SAREBBERO STATE MIGLIAIA di tonnellate d’oro, dicono, ma la flotta dei dollari non arrivò mai sulla costa americana: Nixon bloccò il cambio dollaro-oro prima con la «sospensione» di ferragosto e poi con un nuovo assetto monetario mondiale – e un nuovo cambio: 38 dollari invece di 35 per la famosa oncia d’oro che nessuno avrebbe mai più visto. Lo chiamarono «Nixon shock» e funzionò, per quel che doveva funzionare: McGovern venne suonato come un tamburo. Per tutti gli altri iniziava l’era del capitalismo finanziario.

Tempo due anni e Nixon era sotto inchiesta, il capo staff Haldeman era in galera, il bancor di Keynes aveva fatto la fine dell’esperanto e un altro economista, Milton Friedman, accendeva i motori del turbocapitalismo finanziario così come lo conosciamo. I testi che gli avrebbero dato il Nobel per l’economia li aveva già scritti, le lettere di consigli finanziari al generale Augusto Pinochet le scriverà entro un paio d’anni, giusto per dichiarare da che parte stava.

PROFETA DELLE CRISI, Friedman determinò il nuovo corso economico del mondo, perseguendo ogni «shock necessario a far diventare politicamente inevitabile tutto ciò che è socialmente inaccettabile», a partire dal debito pubblico. E praticò la shock economy (definizione di un fortunato libro di Naomi Klein) fino all’ultimo respiro, letteralmente: quando l’uragano Katrina devastò New Orleans nel 2005 «zio Miltie», 93enne e malato, trovò l’energia per un ultimo editoriale sul Wall Street Journal: «Le scuole sono tutte in rovina, ottima occasione per riformarle», e in dodici mesi i suoi buoni-scuola privatizzarono tutta l’istruzione di una città ancora a pezzi. Morì poco dopo.

COSÌ L’ECONOMIA. Sottratta all’ultimo parametro fisico, venne inghiottita dalla finanza e fare soldi a mezzo di soldi divenne non solo accettabile ma consigliato. Detto in modo primitivo, da allora tutti quanti finanziamo il disavanzo americano e la finanziarizzazione globale. Non ci volle molto tempo. Nel ferragosto di dieci anni dopo, Valentino Parlato impugnò un editoriale sul manifesto: «Con il passaggio al dollar standard il potere americano ha perso ogni copertura (e ogni forza) di «naturalità», è diventato puro potere politico», scriveva. «Dieci anni non sono un periodo lungo, ma sufficiente per scorgere che se i mutamenti non si accompagnano e fanno crescere, quella mancanza di «naturalità» e quel denudamento di forza che si esprime nell’attuale stato del sistema monetario finirà con il crescere in violenza».

NON CHE IL GOLDEN STANDARD fosse un paradiso, anzi ha generato più di un inferno. Ma l’oro aveva resistito per secoli come centro del sistema monetario del mondo. È un minerale inerte e resistente che da solo non genera reddito né produzione. I sovrani del Rinascimento ci truffavano i creditori grattandone un po’ da ogni moneta che si arrogavano il diritto di coniare, l’impero spagnolo annegò nei galeoni che scaricavano le viscere di Messico e Perù scambiando l’opulenza per ricchezza, Marx si ruppe la testa indagandone il valore d’uso e il valore di scambio, metropoli vennero create dal nulla quando una corsa all’oro in California incrociò un villaggio di pescatori chiamato San Francisco, l’impero britannico ci garantì i propri scambi commerciali finché la seconda guerra mondiale sostituì l’oro col dollaro – legato all’oro solo dalla finzione che i dollari si potessero scambiare davvero: appena De Gaulle ci provò, Nixon bloccò tutto e tanti saluti.

Prima che Nixon decidesse di tenersi l’oro in tasca, Hannah Arendt aveva scritto dell’infelice condizione della vita e dell’identità degli uomini, interamente costruita intorno al lavoro – e specificamente il lavoro salariato dipendente – nel momento in cui quel lavoro viene a mancare. La finanziarizzazione dell’economia quel giorno di ferragosto fece il suo «grande balzo in avanti», per così dire, e oggi lo squilibrio inaudito tra capitale finanziario e beni prodotti prospetta a vaste masse un destino di esuberi permanenti.

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