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Niniveh, storie di persecuzione

Niniveh, storie di persecuzione

Un documentario di Elisabetta Valgiusti e un seminario di Un Ponte Per a Roma per parlare dei cristiani e di peacebuilding A Mosul la polizia religiosa lo scorso 10 marzo celebrava l’occupazione, ancora salda, della città da parte del Califfato con un rogo di libri cristiani. Casse e casse di opuscoli […]

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 2 aprile 2016

A Mosul la polizia religiosa lo scorso 10 marzo celebrava l’occupazione, ancora salda, della città da parte del Califfato con un rogo di libri cristiani. Casse e casse di opuscoli parrocchiali con una croce latina blu in copertina e nessun prezioso manoscritto a quanto pare dal video – poi cancellato – postato su twitter dall’agenzia di stampa ufficiale dell’Isis, Amaq agency.

Nel video si vede solo un uomo con lo zuccotto che alimenta il fuoco in una squallida piazzola. Nessun pomposo bagliore guerresco o tripudio di folle. È su internet che il rogo inteso come rito diventa pubblico, la propaganda non si compie più sui palchi e nelle piazze come durante i Bücherverbrennungen, i falò dei libri voluti da Goebbels. Ma l’obiettivo a ben vedere è simile.

Come allora la distruzione simbolica indica il massacro umano che si compie dietro le quinte, la volontà di azzerare una cultura e anche, fisicamente, una popolazione. Si sta parlando delle comunità cristiane della piana di Niniveh, insediamenti documentati nella Bibbia, contro cui i miliziani dell’Isis dall’agosto del 2014 hanno scatenato una vera e propria caccia all’uomo (e alla donna), rastrellando villaggio per villaggio la regione che ha per capoluogo Mosul, seconda città per importanza dell’Iraq e da allora capitale dello Stato islamico.

Il Segretario alla Difesa statunitense John Kerry, il 17 marzo scorso mentre annunciava la riconquista del 40% del territorio in Iraq e del 20% in Siria, utilizzava la parola «genocidio» per indicare ciò che sta accadendo ai cristiani, agli yazidi e alle altre minoranze nella zona ancora in mano ai miliziani «neri» tra Iraq e Siria. Genocidio – spiega il portavoce della Casa Bianca John Earnest – è parola gravida di determinazioni giuridiche nel diritto internazionale giusto a partire dal 1948.

È in effetti il tentativo di sradicare gruppi etnici o religiosi, ciò che emerge dalle voci dei cristiani, siro-cattolici, siro-ortodossi o caldei, in gran parte fuggiti dalla città di Qarakosh in Iraq per rifugiarsi a Erbil in territorio kurdo nel bel documentario «Nineveh Christians in Exile» realizzato da Elisabetta Valgiusti dell’associazione Save the monasteries, presentato a Montecitorio dalla vicepresidente della Camera Marina Sereni, da Pierluigi Castagnetti e dal vaticanista Salvatore Mazza.

I testimoni della diaspora – che riguarda oltre 100 mila persone in totale – raccontano di essere stati avvertiti dai vicini musulmani dell’arrivo delle milizie nere, di essere partiti di notte, abbandonando tutto – case, professioni, negozi, piccole aziende – per ritrovarsi sotto una tenda dell’Unhcr nel cortile di una chiesa o in un palazzo in costruzione a Erbil, accanto agli yazidi, poveri (oltre 10mila esuli) e alle altre famiglie sciite, le altre minoranze, massacrate dall’Isis (sunnita).

Ciò che si capisce dai racconti è che la comunità cristiana in Iraq era fiorente, forte anche di 19 conventi ora distrutti. I cristiani erano già parte della classe dirigente e imprenditoriale del paese ai tempi di Saddam, che aveva Tarek Aziz, un cristiano, appunto, come suo braccio destro. Adesso Daesh li ha prima taglieggiati e poi espropriati e cacciati se non volevano convertirsi e consegnare tutti i beni.

«Quando potremo tornare a casa?», chiede un vecchio asciugandosi una lacrima, «qui non si può stare», mentre un giovane aspetta solo il passaporto per intraprendere il viaggio verso una nuova vita attraverso la Turchia. Spiega alla videomaker un anziano prete siro-ortodosso di Mosul, padre Yousif Al Banna: «Non è l’Isis il problema più grosso ma chi gli ha fornito le armi, chi lo ha creato, i grandi interessi che ci sono dietro. Per favore Stati Uniti, Europa – parla alla videocamera – la vostra politica in Medioriente ha distrutto le nostre chiese, ci ha ammazzato, cambiatela».

E Louis Raphael I Sako, patriarca caldeo di Babilonia, aggiunge (parlando in italiano): «Vogliono ridurre il Medioriente a una giungla dove la gente si ammazza e poi dividere Siria, Iraq, Libia, trasformarli in tanti piccoli stati deboli, per mantenere il controllo». Ciò che vogliono dire è che le comunità cristiane rappresentavano l’ultimo collante da distruggere per disarticolare ciò che rimaneva di una struttura sociale e nazionale pluralistica.

Pensando al dopoguerra l’ong italiana che da trent’anni si occupa di Iraq, Un Ponte Per, ha portato a Roma, alla Casa internazionale delle Donne, per un seminario (visibile su Youtube), rappresentanti di 15 associazioni della società civile che nelle zone liberate della piana di Niniveh tentano di ricostruire una convivenza civile interreligiosa e interetnica fornendo alle persone che hanno deciso di rimanere lì percorsi di riconciliazione, di giustizia riparativa e supporti psicologici per vincere la paura e i traumi della guerra ancora in corso.

«La guerra non è l’unica soluzione,né la più efficace – dice Kai Brand-Jacobsen, esperto di peacebuilding appena tornato dalla città di Ninive – esistono là tanti eroi di pace che chiedono a noi di fermare forniture di armi e interventi militari che peggiorano soltanto la loro situazione».

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