In principio fu Arvidas Sabonis, il principe del Baltico. Quasi 30 anni fa, in una Nba che scopriva i talenti europei e la loro classe sopraffina, il gigante lituano distribuiva assist come nemmeno il più immaginifico dei playmaker.
Ora in uno dei campionati più ricchi e popolari del mondo c’è un ragazzone nativo di una cittadina serba di nome Sombor che ha perfezionato e sublimato l’arte di Sabonis. Sembra capitato lì per caso, poi leggi le statistiche e non credi ai tuoi occhi. Si chiama Nikola Jokic e da tre anni è il cestista più forte al mondo, perché non solo distribuisce assist come se non ci fosse un domani, ma prende rimbalzi e segna punti a valanga. Re della tripla doppia (più di 10 punti, rimbalzi e assist, appunto), due volte Mvp (miglior giocatore della lega), ma soprattutto fresco campione Nba e miglior giocatore delle finali per giudizio unanime. Ha condotto per mano i Denver Nuggets lì dove la franchigia del Colorado non era mai stata, sul tetto del campionato statunitense di pallacanestro. Eppure a lui interessano soprattutto i cavalli e ha seriamente rischiato di fare il fantino. Cresciuto in una famiglia di allevatori, a 13 anni decise di lasciare il basket per darsi all’ippica. Poi l’allarme è «rientrato», ma il ragazzo investe lo stesso una parte del suo tesoro – 270 milioni di dollari per un contratto di cinque anni – nel suo hobby equino. La sua scuderia si chiama Dream Catcher (l’acchiappasogni), dal nome del suo cavallo preferito, quello che la mamma gli doveva passare al telefono durante i primi tempi negli Usa (sic…). E siccome l’Italia in materia di purosangue ha una certa storia, Jokic si fa vedere spesso dalle nostre parti – e pare adori il Bel Paese.

Tanto per ribadire il concetto, nella notte della più grande impresa sportiva della sua vita, mentre i fratelloni, due omoni con tatuaggi ovunque, lanciavano in aria l’allenatore dei Nuggets, lui si preoccupava di quando ci sarebbe stata la parata celebrativa. «Giovedì? No, io devo andare a casa!». Sì, perché la domenica c’era una corsa di cavalli.

Insomma, un personaggio fuori dai canoni. Uno che odia i social media e al fenomeno chiassoso e un po’ pacchiano della NBA preferisce la tranquillità di casa e delle sue stalle. Soprannominato Joker, e non a caso i tifosi dei Nuggets truccati come il nemico di Batman si sprecano, su di lui c’è un’anedottica infinita, ma non potrebbe essere altrimenti. Fatevi un giro sul web: ci sono le foto di quando era un ragazzetto più che paffuto, visto che beveva tre litri di Coca Cola al giorno e per«stimolarlo» il suo agente Misko Raznatovic gli prometteva una scatola di biscotti al cioccolato dopo ogni partita giocata bene. E poi ci sono spezzoni di interviste fuori dagli schemi, che sublimano il suo ruolo di archetipo dell’anti-divo. Una «perla»: dopo una grande prestazione nei playoff contro Portland, alla domanda di una giornalista «come ti sei preparato a questa importante partita?», il campione risponde «ho mangiato, ho guardato programmi TV, ho mangiato di nuovo, poi ho dormito».

Per fortuna ha un po’ rivisto soprattutto la quantità di cibo che ingurgita. Al suo arrivo a Denver, aveva il 22% di massa grassa. Uno sproposito. Si narra che la prima sera, a una cena a casa di un dirigente dei Nuggets, si sia sbafato da solo una vaschetta di gelato da un chilo. I Nuggets capiscono l’antifona e gli vietano bevande gasate e dolciumi, e così perde 19 chili in 6 mesi. La tecnica e l’intelligenza cestistica c’erano sempre state, una volta messo a posto il fisico il resto è storia.

Eppure non sembrava un predestinato, uno come lo sloveno Luka Doncic, che a 16 anni era già titolare del Real Madrid. Jokic non è passato per le trafile delle varie nazionali giovanili e non solo non ha suscitato l’interesse delle grandi d’Europa, ma nemmeno di quelle di Serbia come Partizan e Stella Rossa. Al principio era un paria anche nell’NBA. Si narra che quando fu scelto nel 2014 solo al numero 41 non solo non fosse presente negli States (e questo è un dato di fatto) ma che dormisse beatamente. Fu uno dei fratelli a dargli la bella notizia. Nota bene: a credere in lui fu l’allora vicedirettore dei Nuggets Arturas Karnišovas. Un lituano, come l’antesignano Sabonis. Ovviamente.

Grazie al fiuto di Karnišovas ora abbiamo la super-star meno egoista della storia. Mani fatate, genio cestistico infinito, movimenti che sembrano al rallentatore, ma che distruggono le difese. Una leggerezza d’animo che a tratti si traveste da indolenza o viceversa, chissà. Ma il nostro, che ha appena riscritto il libro dei record dei play off NBA da giocatore totale qual è, è soprattutto un grande uomo di sport. Uno che nell’ultima partita di finale, tesissima, contro i Miami Heat prima di esultare – senza darlo troppo a vedere, per carità – è andato a complimentarsi con ognuno dei suoi avversari, a cui ha riservato parole al miele anche nell’intervista rilasciata qualche secondo dopo. Un cuore d’oro nascosto in un fisico da colosso. Ultimo aneddoto: a 18 anni Jokic ha saltato due partite per una lesione al polso causata da tre ore di autografi fatti a circa 300 bambini. «Nella mia vita non posso mai deludere un bimbo», si giustificò.