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Niente asilo per Edward Snowden

Niente asilo per Edward Snowden

Datagate Su 21 Paesi ancora nessuno si è detto disposto ad accogliere l’ex analista della Nsa. Che resta chiuso nell’aeroporto di Mosca

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 3 luglio 2013

Il caso Snowden non trova soluzione. L’ex consulente Cia – rivelatore di un gigantesco piano di intercettazioni illegali messo in atto dagli Usa – non ha ancora potuto lasciare il terminal dell’aeroporto moscovita di Sheremetievo. Lunedì la situazione sembrava presentare uno sbocco: il presidente russo Vladimir Putin pareva intenzionato ad accogliere la sua richiesta di asilo politico, presentata – secondo l’ufficio consolare dell’aeroporto – dall’avvocata inglese Sarah Harrison. Ieri, «la talpa del Datagate» ha però respinto la mano tesa di Putin, aperta sì, ma a condizioni precise: che cessi di infastidire «i partner statunitensi» con le sue rivelazioni. Come dire: lasciate manovrare il manovratore. Così ha pragmaticamente ricordato la stessa amministrazione Obama, rispondendo alle rimostranze delle diplomazie internazionali. Vi spiavamo? Ma perché tutti i vostri servizi segreti non fanno altrettanto in nome del dio mercato? Insomma: amici, sì, ma prima il portafoglio.
Questo il tenore delle risposte, più o meno diplomatiche, rivolte da Washington ai partner europei e alle 38 ambasciate internazionali spiate dal programma Prism. Uno spionaggio che sta provocando la reazione degli stessi sostenitori di Obama, convinti dalle sue promesse di trasparenza in campagna elettorale e ora messe alla prova dalla solita realpolitik di Washington.
Snowden ha respinto al mittente le condizioni di Putin. Il sito Wikileaks ne ha subito dato conto, pubblicando una sua lettera – la prima dopo l’esplosione dell’inchiesta Prism, ad opera del quotidiano britannico Guardian e dello statunitense Washington Post. «Devo la mia libertà agli sforzi dei miei nuovi e vecchi amici, familiari, e altre persone che non conosco e forse non conoscerò mai. A loro ho affidato la mia vita e loro confidano in me, e per questo sarò sempre riconoscente», scrive l’ex tecnico informatico della Nsa. Quindi accusa Obama: ha fatto pressione «sui leader delle nazioni alle quali ho chiesto protezione, affinché mi negassero il diritto di asilo», dice.
Un’evidente allusione alla crisi diplomatica tra Usa e Ecuador, esplosa dopo la richiesta di asilo di Snowden rivolta a Quito. Washington ha subito fatto notare a Quito che l’alto volume di scambi commerciali esistenti fra i due paesi avrebbe richiesto maggior prudenza, e ha battuto il pugno sul tavolo. Rafael Correa – il presidente dell’Ecuador che partecipa alla nuova alleanza dei paesi progressisti dell’America latina – è stato etichettato come «il nuovo Chávez». Il paese andino ha ribadito che il tavolo su cui è caduto il pugno nordamericano da qualche anno non sta più nel «cortile di casa» degli Stati uniti, e che perciò Quito preferisce rinunciare agli accordi commerciali di favore (in scadenza a fine luglio) pur di tenersi la propria sovranità decisionale. Allo stesso tempo, però, Correa ha bacchettato il proprio consolato a Londra, che ha concesso a Snowden il lasciapassare con cui ha potuto arrivare fino a Mosca. Una via già tentata da Julian Assange, il cofondatore del sito Wikileaks che ha ottenuto asilo dall’Ecuador ma che da un anno si trova nell’ambasciata ecuadoriana a Londra perché la Gran Bretagna lo vuole estradare in Svezia, da dove potrebbe essere rispedito negli Usa. Assange sta fornendo aiuto a Snowden, l’avvocata Harrison è del suo staff. Ha raggiunto «la talpa del Datagate» a Hong Kong nel mese di maggio, dopo la sua fuga dalle Hawaii. Allora Snowden ha deciso di lasciare il suo lavoro di tecnico informatico alla Nsa, portando con sé i preziosi file che contengono le informazioni supersegrete.
La gestione di Wikileaks – che ha deciso di fondare un proprio partito e di presentarsi in Australia – imbarazza però le complesse dinamiche nord-sud. Correa ha anche chiesto ad Assange di mantenere un profilo basso, e di non parlare a nome dell’Ecuador. Il suo ministro degli esteri, Ricardo Patiño, ha però ribadito su twitter che non ci sarà ritorno indietro, l’Ecuador mantiene la sua disponibilità. Le 21 richieste di asilo rivolte da Snowden ad altrettanti paesi e rese pubbliche da Wikileaks, provocano però qualche imbarazzo. Alcuni – come la Spagna – si trincerano dietro le proprie norme vigenti. Altri, come la Norvegia e l’Austria, si limitano ad ammettere di aver ricevuto la sollecitazione. Altri ancora, come la Polonia, dicono che respingeranno la richiesta. Dall’America latina, il presidente della Bolivia, Evo Morales, si è detto disposto ad esaminare la domanda. Il presidente del Venezuela, Nicolas Maduro ha detto di non sapere della richiesta di Snowden ma ha ribadito la disponibilità a offrire protezione al «giovane che rappresenta un segnale di allarme proveniente da un sistema economico che non garantisce i diritti basilari delle persone».

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