Cresciuto tra l’Alto Adige e il Ticino – «territori di confine nei quali la sovversione di minoranza e maggioranza si ripropone costantemente» – Nicolò Degiorgis (Bolzano 1985) si è «rifugiato nell’arte per evadere da costrizioni identitarie e linguistiche», come ha affermato a Torino in occasione della partecipazione alla 30.ma edizione di Artissima, la più importante fiera di arte contemporanea in Italia, nello stand della galleria Eugenia Delfini di Roma che con il suo lavoro ha vinto l’Identity Fund for New Entries.

Il progetto monografico costituito da Peak (2014/2023), un’installazione di 44 immagini fotografiche in bianco e nero sul paesaggio dolomitico, accompagnato dai multipli Peak Art Cover, dal lightbox Case fiammanti su cielo alpestre (2013) e dalla serie fotografica The Art of Camouflage (2011), che esplora la presenza dell’esercito nella società civile, è stato premiato per la sua «forza critica sulle dinamiche sociali e politiche italiane». La ricerca artistica di Degiorgis, che ha studiato lingue e culture orientali (cinese e coreano) all’Università Ca’ Foscari di Venezia «traslando l’idea dell’altro dal locale al globale», rappresenta per lui un tentativo costante di riflettere sull’alterità nel tentativo di sovvertire quel concetto stesso.

La tematica del confine sembra attraversare tutto il tuo lavoro…
È un tema che mi preme e che credo sia anche di questi tempi, considerando che viene affrontato molto spesso. Essendo cresciuto anch’io in un territorio di confine, porto con me un’esperienza di convivenza di più etnie culturali e linguistiche. In qualche modo è un tema che ho subito, m’interessa e continuo ad affrontare, così in modo diretto o indiretto entra a far parte dei miei lavori.

Nella tua pratica artistica il linguaggio fotografico viene declinato in diverse maniere, partendo dalla fotografia documentaria fino ad un approccio più concettuale…
In questo contesto si tratta di tre corpus di lavori – Peak, Case fiammanti su cielo alpestre e la serie The Art of Camouflage – che adoperano l’immagine in modi diversi, ma tutti e tre nascono dalla fotografia. Sono fotografie documentarie molto tradizionali quelle di The Art of Camouflage che fa parte dei progetti riguardanti cosa è visibile e non visibile nello spazio pubblico, come Hidden Islam un lavoro di catalogazione e indagine dei luoghi di culto islamico (il libro, opera prima di Degiorgis, pubblicato da Rorhof nel 2014 è stato vincitore del Rencontres d’Arles Author Book Award e del Paris Photo/Aperture Award 2014 come miglior libro fotografico dell’anno – ndr) e il progetto sul carcere (Prison Museumndr).

L’«arte del camouflage» conclude, o forse prosegue, questa trilogia portando a riflettere sulla visibilità e non visibilità, quindi anche sull’ambiguità da parte dell’esercito, sia negli aspetti pubblici, considerando che si tratta di un ambito che sta diventando sempre più presente anche al di fuori dei contesti solo militari, toccando anche il cambiamento degli assetti geo-politici dell’Unione Europea che vede l’abbandono di molte caserme che sono state costruite in passato. In questo caso il camouflage avviene tramite la natura che si prende possesso delle strutture stesse. Un camuffamento contemporaneo è anche quello per cui avvengono esercitazioni militari che prevendono buoni e cattivi. Nelle esercitazioni per l’Afghanistan, presenti in queste fotografie, ci sono anche i Talebani, quindi il camouflage dal buono al cattivo e c’è anche quello naturale militare. Intorno al 2010-2011 avevo seguito gli Alpini per un altro progetto e in quell’ambito è nato questo che ho realizzato principalmente in Alto Adige, con alcune escursioni in Trentino-Veneto, dove ci sono caserme abbandonate insieme ad altre ancora in uso.

In «The Art of Camouflage» la forma del dittico sottolinea la dualità visibile/invisibile, invece in Peak l’idea di serialità a cosa è collegata?
Ogni progetto deve trovare un linguaggio che abbia una sua ortografia che visivamente, concettualmente e dal punto di vista narrativo permetta di coglierlo. Con la serialità è come se le immagini fossero, in un certo senso, delle parole. Però questa serialità non può essere troppo ripetitiva perché altrimenti diventerebbe banale. In The Art of Camouflage c’è un aspetto documentario in cui entra in gioco, effettivamente, la componente cromatica insieme alla tecnica della luce della fotografia, delle ombre e dei chiaro scuri utilizzati in modi diversi.

In Peak, invece, dove è avvenuta della postproduzione l’aspetto seriale riprende l’idea di fotografia dell’«heimat» propria dell’ambiente germanofono, ma cerca anche di sovvertirla. Inizialmente sembra qualcosa di molto seriale ma osservando con attenzione ci si accorge che non ci sono solo montagne – le Dolomiti del Cadore – ma anche sassi, sabbia. Insomma, è una visione che crea un cortocircuito. Nato nella libertà creativa più totale, lavorando in loco insieme alla Magnifica Comunità di Cadore, visitando e documentando i vari luoghi – dalle cave alla roccia dolomitica – è nato, poi, un libro più muto dal punto di vista formale.

Che intendi per «muto»?
È muto perché utilizza solo la montagna in tutti suoi aspetti. Anche nei multipli Peak Art Cover viene riproposta la roccia delle Dolomiti in una sorta di copertina rigida del libro che, come tutti gli altri, ha una mappatura. In questo caso si tratta della provincia del Cadore dipinta nella Magnifica, poi dalla notte pian piano si passa al giorno, inizia a nevicare e diventa tutto bianco e poi la neve si scioglie, a volte c’è un sasso. C’è una montagna d’immagini… si gioca sul linguaggio. Non c’è altro che montagna in questo libro. Ma, poi, cos’è una montagna?

L’ambiguità affiora anche nel lightbox «Case fiammanti su cielo alpestre»…
In questo caso si tratta di un collage digitale che è la reinterpretazione del dipinto di Fortunato Depero dal titolo Case alpestri su cielo fiammante (1936). L’ho sovvertito chiamando la mia opera Case fiammanti su cielo alpestre. Per realizzarla ho utilizzato il mio archivio fotografico sull’Alto Adige, andando a ricreare il dipinto attraverso un paesaggio contemporaneo, per questo sono presenti immagini che si riferiscono a molti aspetti diversi: il dopoguerra, gli Alpini, i monumenti fascisti – il Monumento alla Vittoria di Bolzano, il Bassorilievo di Mussolini – ma anche le strutture contadine, aspetti della cultura meticcia che si è creata in quest’area geografica. È stato anche un modo, al livello visuale, di andare a stordire per riprendere la complessità del territorio.

Nel 2014, insieme a Eleonora Matteazzi, hai fondato la casa editrice indipendente Rorhof: il libro come forma per veicolare un pensiero?
La casa editrice è stata creata anche perché i progetti erano molto più documentari, quindi era presente anche l’aspetto della divulgazione. Per me il libro è qualcosa di spontaneo e naturale, un canale necessario ed è anche una riflessione sull’editoria come pratica artistica.

Tra l’altro, nella politica dell’immagine la carta stampata fa parte del DNA della fotografia e della molteplicità. L’anno prossimo Rorhof festeggerà dieci anni e la riflessione sul libro continuerà in nuovi modi. La carta stampata sarà sempre molto presente, ma più legata all’esposizione e alla creazione di contenuti. Ogni libro di Rorhof, tra l’altro, sta diventando parte di macro progetti, filoni di ricerca che s’intrecciano sul tema del confine e della comunità.