Nicolas Philibert, l’arte di trovare la giusta distanza
Intervista Parla il regista di «De Chaque Instant», in concorso a Filmmaker Festival, che racconta la formazione degli apprendisti infermieri di Montreuil
Intervista Parla il regista di «De Chaque Instant», in concorso a Filmmaker Festival, che racconta la formazione degli apprendisti infermieri di Montreuil
Felpa, jeans, scarpe da ginnastica bianche, il passo lieve, lo sguardo gentile, Nicolas Philbert assomiglia ai personaggi che filma, gente che non vive sulla ribalta, ma che con il proprio lavoro dietro le quinte manda avanti pezzi di mondo. Lo incontriamo a Milano, dove ha fatto un blitz di poche ore per presentare il suo ultimo documentario, De chaque instant, in concorso internazionale a Filmmaker Festival.
Così come era stato per il suo film forse più celebre, Essere e avere del 2002, che racconta un anno di lezioni in una pluriclasse di un paesino rurale del centro della Francia, anche De chaque instant segue un percorso di formazione. Là era una scuola elementare, qui siamo all’istituto Croix Saint Simon di Montreuil, vicino a Parigi, dove si istruiscono gli apprendisti infermieri. Suddiviso in tre parti, il film segue prima le lezioni teoriche, la pratica su manichini, finte pance, glutei di silicone e le lezioni sui fondamentali della cura, poi si addentra negli stage in ospedale, a contatto con malati veri e i ritmi non sempre facili di un reparto, infine racconta i colloqui dei futuri infermieri con i loro tutor dove si fa il bilancio di esperienze, ostacoli, aspirazioni, obiettivi.
Perché ha deciso di filmare la formazione degli infermieri?
Nel 2016 ho avuto un grave problema di salute, un’embolia polmonare, e ho rischiato di morire. Una volta ristabilito ho avuto voglia di fare un film che rendesse omaggio a questo mestiere difficile e faticoso, che si svolge nell’ombra, ha orari duri, richiede dedizione e una grande varietà di consocenze, ma è mal pagato.
Ha raccontato il percorso dentro una scuola piuttosto che il lavoro in un ospedale. Come mai?
Ho pensato che per mostrare la diversità delle conoscenze richieste e la difficoltà del mestiere era più arricchente raccontare il percorso di apprendimento. Dietro a gesti apparentemente semplici ci sono protocolli difficili, regole igieniche che bisogna rispettare scrupolosamente e un background difficile da immaginare se si filmano persone esperte. Si guardano infermieri diplomati praticare cure ordinarie, i loro movimenti sono fluidi e ciò che fanno sembra facile. In realtà c’è una quantità di errori che non bisogna commettere e cose che bisogna sapere. Inoltre, quando si filmano persone che imparano si racconta un desiderio, di riuscire, ottenere un diploma. Non c’è niente di più bello al mondo che imparare qualcosa.
Il film è diviso in tre parti molto diverse. Si passa dal divertimento della prima, alle difficoltà della pratica nella seconda, per finire con la verità della valutazione. È come una discesa verso la durezza della realtà.
Perché la realtà è dura. In un ospedale o in una casa di riposo non ci sono più manichini, ma pazienti veri che soffrono. Non è facile avvicinarsi e manipolare il corpo di un altro e questo immerge gli allievi in un rapporto di alterità complesso, è un legame delicato che richiede molto tatto. Ci sono gesti apparentemente semplici, come lavare il corpo anche nelle parti intime, che sono più difficili di un gesto tecnico perché si entra nell’intimità di un’altra persona. All’inizio c’è una sorta di pudore che può provocare uno choc. Poi c’è una doppia difficoltà perché si è confrontati con le carenze economiche. L’ospedale, la salute, come l’insegnamento e tutti i settori di attività umane, oggi sono regolati dal denaro, dal management e bisogna essere perfomanti, andare veloci. Gli allievi infermieri imparano a scuola delle regole deontologiche e valori che però sono feriti dalla realtà economica, dalla mancanza di personale e di finanziamenti.
Quest’ultimo aspetto emerge fortemente nella terza parte, quando alcuni stagisti raccontano di non essersi sentiti trattati con la pazienza necessaria.
Se si arriva in un’equipe sovraccarica di lavoro può succedere che chi dovrebbe accompagnarvi non abbia il tempo di occuparsi di voi, che vi si domandi di fare cose che non avete ancora imparato e, se lo fate male, possono prendersela con voi. Nel film c’è una ragazza in lacrime che racconta di essere stata rimproverata dall’inizio alla fine dello stage. Non sempre è così, ci sono persone attente e accudenti, ma se si capita con persone sotto pressione si riproduce sull’altro la violenza del sistema stesso. La terza parte è per me la più importante e ricca perché attraverso questi bilanci e testimonianze si capisce una quantità di difficoltà quotidiane, come per esempio guadagnarsi da vivere. C’è una ragazza che racconta che, oltre a studiare, lavora anche come badante e custode e quindi fa due mestieri per pagarsi gli studi, cosa molto diffusa. Poi c’è la barriera delle lingue evocata da un’allieva che parla arabo e viene sollecitata a fare anche da interprete, cosa che non le competerebbe, anche perché c’è il segreto medico e bisogna fare attenzione a usare intermediari. Grazie alle testimonianze si ha da una parte la misura di quante difficoltà incontrino gli infermieri nel loro mestiere, dall’altra emerge il desiderio di fare questo lavoro che anima queste persone, la voglia di imparare un mestiere con il quale ci si sente utili, come dice un ragazzo che fa uno stage in psichiatria. Oggi si vive in un mondo cinico, nel quale la gioventù è considerata insensibile e superficiale. Con questo film volevo dimostrare che non è affatto così e che ci sono giovani che hanno voglia di inserirsi nella società e di essere al servizio di tutti. Nel mondo in cui siamo, e in Italia lo sapete meglio che altrove, viviamo un periodo di implosione identitaria terribile. Per me era importante fare un ritratto della Francia attraverso una gioventù multietnica. In questa scuola ci sono antillesi, magrebini, accenti, visi e colori di pelle diversi e sono tutti lì per imparare un mestiere al servizio della comunità. Non è una cosa da poco.
Come è riuscito a entrare in queste situazioni così intime senza diventare invadente?
Non mi nascondo mai, nascondersi è la cosa peggiore perché è come far pensare che si vogliono filmare delle cose e delle persone di nascosto. Io sono là, presente. L’essenza del mio cinema consiste nel costruire una confidenza e ciò passa prima per la parola. Spiego perché sono lì, che film voglio fare, che uscirà in tv, dvd, al cinema. Ciascuno può accettare o rifiutare e nessuno deve giustificarsi. Qualche decina su 280 allievi infermieri hanno preferito non comparire, cinque o sei non hanno voluto primi piani, ma quasi tutti hanno accettato, come i pazienti all’ospedale e non era scontato, perché lì ci si va quando non si sta bene, ma ho anche scoperto che ci si annoia tantissimo, le giornate non finiscono mai. Noi con la nostra piccola troupe eravamo un diversivo.
La cinepresa non diventa mai un ostacolo alla spontaneità?
Quando si ha una cinepresa fra le mani si ha un potere enorme sugli altri, un potere di intimidazione. Tutta la questione è come non abusare della macchina da presa e saperla appoggiare quando non serve. Oggi tutto è visibile, in mostra, esibito. Il cinema che difendo si oppone a questa visibilità totale e imperante. Farò un esempio. Per la terza parte del film ho filmato 60 interviste e ne ho usate 13. In certi casi gli studenti raccontano stage non facili, dove si sono sentiti trattati non bene o rimproverati e dirlo davanti a una cinepresa non è facile. Hanno imparato a conoscermi a poco a poco, hanno capito che non ero né sadico, né un mostro, né un voyeur perché filmo solo ciò che mi viene donato volentieri. In queste interviste ho sempre detto che sarei andato via prima della fine, per lasciare loro del tempo in cui fossero liberi di confrontarsi con il tutor, e a volte ho tagliato perché ho sentito che la conversazione andava in una direzione che non mi riguardava. Il mio lavoro e quello degli infermieri hanno in comune delle frontiere da non oltrepassare. In entrambi bisogna trovare la giusta distanza.
Il film è uscito in Francia a fine agosto. Come sta andando?
È passato in 150 sale in piccole città, abbiamo fatto oltre 100mila entrate e continua a girare. È stato accolto molto bene soprattutto nel mondo della sanità e dagli infermieri che sono molto contenti che si renda omaggio all’importanza del loro lavoro. Vengono a vederlo anche molti studenti liceali e alcuni sono usciti dicendo che potrebbero fare questo mestiere. Le giovani generazioni sono meglio di quanto si dica o gli si sia fatto credere. C’è poi un aspetto non indifferente, è un mestiere in cui si trova occupazione. È ancora a maggioranza femminile, ma i maschi, che ora sono circa il 15%, aumentano. D’altra parte per due secoli è stato affidato al volontario e a ordini religiosi, come professione è stato strutturato solo dopo la seconda guerra mondiale. Lo stigma di genere però resiste. Alcuni allievi in stage mi hanno raccontato che quando mettono il camice ed entrano in una stanza d’ospedale i pazienti li salutano dicendo «Buongiorno dottore», se entra una ragazza dicono «Buongiorno signorina».
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