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Nick Drake, elogio della fragilità

Nick Drake in un noto scatto di Keith MorrisNick Drake in un noto scatto di Keith Morris

Anniversari Il nuovo «Smoke & Fiction», è il preludio all’addio alle scene dell’esplosiva punk band losangelina. I suoi tre album, «Five Leaves Left», «Bryter Layter» e «Pink Moon», sono stati e restano ancora fonte di ispirazione per una folta schiera di artisti. Una vita breve sempre sull’orlo della crisi. Il ricordo di John Parish, Alessandro «Asso» Stefana e Alessandra Novaga

Pubblicato circa 5 ore faEdizione del 16 novembre 2024

Nella tarda mattinata di lunedì 25 novembre 1974, Rodney Drake si trovava in un vivaio a poche miglia da Tanworth-in-Arden. Ex direttore generale della Wolseley, dopo una vita al servizio dell’Impero Britannico, Rodney era in pensione da quattro anni e si dedicava con passione al giardinaggio, in particolare alle rose che coltivava a Far Leys, la residenza di famiglia. È probabile che per lui il vivaio fosse, come per molti di noi, un rifugio, un’oasi mentale dove distrarsi tra piante, fiori, attrezzature e prodotti per il giardino. Inoltre, era il momento di preparare le rose alla stagione invernale. Quella mattina era uscito di casa senza incrociare suo figlio Nick. Non era strano, Nick aveva i suoi orari. Da quando era tornato a vivere a Tanworth con loro, all’inizio del 1972, Rodney aveva cominciato a tenere un diario che scriveva a matita la sera, prima di addormentarsi: da ex ingegnere, sapeva che raccogliere dati è importante, e quegli appunti servivano soprattutto a documentare la vita di Nick Drake in modo schietto, a volte caustico. «I suoi tentennamenti sono impossibili!», scrisse verso la fine di giugno: Nick aveva accettato di iniziare un trattamento con l’elettroshock presso l’ospedale di Birmingham, ma alle 3 di notte aveva svegliato i genitori in preda ai dubbi, aveva cercato di fuggire in auto ma non aveva trovato le chiavi; il giorno dopo aveva accettato di essere accompagnato all’ospedale, ma una volta arrivati aveva cambiato idea. Il giorno dopo ancora era di nuovo d’accordo, ma poi anziché all’ospedale se ne andò a Londra.

UNA TELEFONATA
Quel 25 novembre di 50 anni fa, quando poco prima delle 13 Rodney chiamò Far Leys dal vivaio – voleva chiedere un consiglio alla moglie Molly, oppure fu un presentimento? – gli fu detto di tornare immediatamente a casa. Alle 11 e 45 Naw, la governante che aveva seguito i Drake in Inghilterra dalla Birmania, era salita a controllare Nick nella sua stanza e l’aveva trovato disteso sul letto. Non dormiva, era morto. Accanto a lui c’era un flacone vuoto di Tryptizol, un antidepressivo a base di amitriptilina. Oggi è noto che la sostanza può indurre il rischio di suicidio in bambini, adolescenti e giovani adulti, ma all’epoca si sapeva molto poco degli psicofarmaci e dei rischi di un’overdose. Il gesto di Nick, tuttavia, non lascia dubbi alla luce della situazione e degli eventi precedenti.

Nel febbraio del 1973, qualche giorno dopo una seduta di registrazione a Londra con John Wood, Nick cadde in uno stato comatoso. Il padre lo vegliò tutta la notte, pungolandolo con uno spillo per accertarsi che fosse vivo; il mattino dopo Nick confessò alla madre di aver ingoiato un intero flacone di Valium in un tentativo di suicidio: era «tutto un casino», la musica non gli arrivava più, non riusciva a relazionarsi con la gente, non gli piaceva vivere a casa con i suoi, ma non riusciva a stare da nessun’altra parte.

«Non c’era niente di romantico nella sua malattia», scrive la sorella Gabrielle nella prefazione alla biografia scritta da Richard Morton-Jack (Nick Drake: The Life, 2023). «Come la maggior parte delle malattie mentali, era cupa, ripetitiva e implacabile, e lo deprivò in modo crudele della sua musa creativa. Lo rese disperato e inflisse una vita di dolore alle persone che gli erano più vicine». Per Gabrielle quello che conta è la vita prima della malattia, i tre album in cui esprime il suo straordinario talento. Morton-Jack documenta tutti i ventisei anni di Nick in modo puntiglioso, tanto che la biografia supera le cinquecento pagine, come quella che Will Hermes ha scritto su Lou Reed (71 anni, 26 album). C’è un «grado» dritto che lega Drake e Reed ed è l’elettroshock, ma c’è anche chi, come la chitarrista e compositrice milanese Alessandra Novaga, li accoppia nella sua playlist mattutina: «Ho una predilezione per Saturday Sun. Influisce molto sul mio umore e mi piace ascoltarla soprattutto appena alzata – dice -. In qualche modo la associo a Perfect Day di Lou Reed. Sono canzoni romantiche e allo stesso tempo languide e struggenti, con una pennellata di leggerezza».

Per il lettore, le pagine di Nick Drake: The Life spalancano una finestra sull’abisso. La malattia mentale è il villain della storia e mai era stata raccontata in modo così vivido e tragico. Sembra di vedere il film della vita quotidiana a Far Leys: la drammaticità è palpabile, come lo sconforto, la confusione, l’impotenza dei tre protagonisti: Nick, Rodney e Molly. Per i genitori si prova una gran pena, impotenti davanti a quel figlio amato che li odia, ha bisogno di loro, ma li rifiuta. Nick non è il cherubino etereo, ma un giovane uomo corroso dal disagio psichico. Sono tutti persi, tutti avanzano brancolando nel buio sempre più tetro.

LA DIAGNOSI
Nick non poteva saperlo, ma proprio alla metà degli anni Settanta, in un laboratorio off licence in California, due chimici stavano sintetizzando l’MDMA (meglio nota come Ecstasy), la sostanza su cui puntano gli studi più avanzati per la cura della depressione, del disturbo da stress post-traumatico e di altre patologie altrimenti irrisolvibili. Una sostanza che, sbarcata nel Regno Unito alla fine degli anni Ottanta, avrebbe contribuito a rivoluzionare il tessuto sociale del paese, al punto da essere considerata una minaccia alle norme e all’autorità. La reazione dell’establishment, infatti, non si fece attendere.

La diagnosi di Nick era di schizofrenia. La nuova biografia «scagiona» Rodney e Molly, ma è interessante leggere ciò che scriveva nel 1967 l’antipsichiatra R.D. Laing ne La politica dell’esperienza: «La “causa” della “schizofrenia” va ricercata esaminando non solo il paziente da diagnosticare, ma l’intero contesto sociale in cui si svolge la cerimonia psichiatrica. Un bambino che nasce oggi in Inghilterra ha probabilità dieci volte maggiori di finire in un ospedale per malattie mentali che all’università, e circa un quinto delle diagnosi che determinano il ricovero sono di schizofrenia, il che può considerarsi un’indicazione del fatto che, anziché educarli in modo sano, stiamo riuscendo a fare impazzire i nostri figli. Forse è proprio il nostro modo di educarli che li trasforma in pazzi».

Come da tradizione, a otto anni Nick fu spedito in collegio a quasi duecento chilometri da casa, l’inizio del percorso che avrebbe dovuto fare di lui «un dottore, un avvocato, un ingegnere, un militare, un diplomatico o qualsiasi altra professione rispettabile per il suo ambiente familiare», scrive Morton-Jack. Quasi avverando la profezia di Laing, Drake abbandonò l’università e finì per distruggere tre chitarre prima di distruggere se stesso: nell’agosto del 1974 una elettrica, con cui ripeteva la stessa identica frase per giorni interi; il 23 maggio 1973, «in un attacco di frustrazione e disperazione», la Levin LS-18, la sua prima chitarra «seria», che aveva con sé a Aix-en-Provence e che suona in Five Leaves Left e Bryter Layter, e la Yamaha G50 dell’amico Brian Wells, con cui fu fotografato più volte. I resti di quelle due chitarre furono bruciati il 16 aprile 1974.

AUTOTERAPIA
Come autoterapia, nella primavera del 1973 Nick cominciò a salire sulla sua Austin e a guidare senza una meta precisa: non sapeva che strada intraprendere nella vita, così ne percorreva a caso una dopo l’altra, sperando di trovare una destinazione, forse anche la musica che non gli suonava più nella testa e fra le dita. Mettersi in viaggio per sfuggire alla stasi, alle ore passate a Far Leys in silenzio nella stanza della musica, per sottrarsi alla vista dei suoi genitori. Il movimento come cura, quel movimento che è la linfa di Three Hours: parte con un fingerpicking quasi incerto, come quando si fa fatica ad accendere il motore di un’auto rimasta ferma a lungo, ma poi prende velocità, salpa con le vele gonfie al vento, le linee di chitarra vagano, cercano una strada, corrono veloci in avanti e poi rallentano, fino quasi a fermarsi. Sembra un tentativo di fuga – come quella volta, pochi anni dopo, che non trovò le chiavi dell’auto e non riuscì a scappare – aspira alla libertà, esprime già le ansie di Drake e dà voce a un senso precoce di fallimento («While three hours had taken/The hope of success»).

John Parish ne ha fatto una versione con Aldous Harding per l’antologia The Endless Coloured Ways. L’incertezza iniziale del fingerpicking di Nick è sostituita da qualche secondo interlocutorio di organo, poi il pezzo si lancia in un ritmo inequivocabilmente motorik. «Era una delle canzoni per l’evento in occasione del settantesimo anniversario della sua nascita nel 2018, nella chiesa di St Georges a Bristol – dice Parish -. In concerto Aldous duettava con H. Hawkline e fu uno dei momenti salienti della serata. L’arrangiamento sembrava perfetto per Endless Coloured Ways e stavolta sono riuscito a cantarla io!». L’approccio motorik è molto efficace, possiede una qualità eterna diversa rispetto all’originale, ma mantiene l’idea di movimento su cui si basa la canzone. «Esatto, il movimento. Il testo secondo me parla di un viaggio senza fine, mancano sempre tre ore alla tua destinazione. Il beat motorik suggerisce un’immagine di movimento costante, per questo ovviamente la canzone doveva sfumare, così non finisce mai». È notevole quel senso di fallimento così precoce. «Oggi sembra assurdo lo scarso successo dei suoi primi due album – continua Parish -. Mi viene in mente Arthur Russell, molto elogiato negli ultimi anni, ma anche lui piuttosto ignorato quando era vivo».

«Conoscevo la musica di Nick Drake da sempre – prosegue – ma non l’ho “scoperto” veramente finché un amico non mi ha mandato la ristampa in vinile di alta qualità del 2012 di Pink Moon. La prima volta che l’ho sentito per intero me ne sono innamorato, e così ho riascoltato Five Leaves Left e Bryter Layter. Sono stupito di come uno dei miei dischi preferiti di sempre fosse uscito 40 anni prima che io lo ascoltassi dall’inizio alla fine». Qual è la qualità più notevole della sua musica? «La voce, il modo di suonare la chitarra, la sua scrittura: tutte cose straordinarie. Come tutti i grandi artisti, la cosa più notevole è la sua unicità. Ci sono stati migliaia di cantanti con la chitarra acustica, ma nessuno suona come Nick Drake. Le melodie, il modo di interpretare i versi, sono inimitabili. Le parole spesso sono piuttosto ambigue, ma il modo in cui le porge ti fa credere che lo capisci». Per il fanta-Drake chiediamo a Parish di immaginarsi nelle vesti del produttore Joe Boyd: Nick Drake viene da te con un po’ di canzoni nuove, ed è il 2024 anziché il 1967. Come lavoreresti con lui? «È buffo, perché il mio disco preferito è stato prodotto dallo stesso Nick con l’ingegnere del suono John Wood, senza Boyd. Con Drake farei quello che faccio con tutti gli altri artisti: mi guadagno la loro fiducia, così da offrire critiche costruttive, che servono ad aiutarli a fare il disco che vogliono loro».

PASSIONE BLUES
Alessandro «Asso» Stefana, chitarrista bresciano, collaboratore di PJ Harvey (produttrice esecutiva del suo album omonimo, uscito nel 2024 per Ipecac), condivide con Drake la passione per il blues acustico. Quella chitarra elettrica rossa è una specie di alieno fra le sue mani; non sappiamo di che marca fosse, ma quale gli farebbe imbracciare Stefana? «Lo vedo con una vecchia Kay Thin Twin, una chitarra prodotta negli anni Cinquanta, dal suono grintoso, blues e grezzo, ma al contempo molto delicato. La stessa chitarra utilizzata da Jimmy Reed». Stefana non ricorda come Nick Drake è entrato nella sua vita «ma nell’istante in cui l’ha fatto, l’ha stravolta», dice. È la persona adatta a parlare delle gioie e dei dolori del chitarrista solo sul palco, come era Nick Drake. «Per Glenn Gould la musica “è uno sport sanguinario, qualcosa che ciascuno dovrebbe ascoltare da solo” – continua -. Si avverte il peso della vulnerabilità che deriva dall’esibirsi in solitudine. La sensazione di essere scrutinati può risultare schiacciante, specialmente per chi preferirebbe suonare in un ambiente più intimo e riservato. Drake lo immagino sempre suonare nella sua camera da letto. Ciò che contava per lui, e io lo condivido, è che la musica, nel suo significato più puro ed essenziale, diventi la vera protagonista dell’esibizione. In questo modo, il pubblico è invitato a partecipare a un viaggio condiviso, anziché essere semplicemente testimone di una performance».

Se dovesse creargli intorno una band, con chi lo vedrebbe suonare? «La sua musica era così intima e personale da sembrare concepita per essere ascoltata in solitudine. Se dovessi pensare a compagni musicali capaci di entrare in sintonia con la sua sensibilità, mi verrebbero in mente alcuni artisti che, in altre epoche, hanno espresso la stessa profondità emotiva: Vic Chesnutt, Sparklehorse, Elliott Smith. Ai cori avrei visto bene Judee Sill, con la sua voce angelica e le sue armonie spirituali. Un incontro tra anime affini, tutte segnate, a loro modo, da una sensibilità fuori dal comune».

ASPIRAZIONI
Non siamo sicuri che Judee Sill avrebbe accettato di starsene a fare i cori, vista l’ambizione della sua visione musicale, ma lei e Drake oltre al destino infausto avevano in comune la passione per Bach. In The Artistic Image Is always a Miracle (Die Schachtel), l’album dedicato al regista Andrej Tarkovskij, Alessandra Novaga dialoga con la musica di Bach, prediletta dal regista sovietico, e rielabora Erbarme Dich da La Passione secondo Matteo. L’ultimo disco ascoltato da Drake (era sul giradischi nella stanza della musica a Far Leys) furono i Concerti Brandeburghesi, che poco sembrano avere a che fare con pensieri suicidi, ma forse molto con la trascendenza, o perlomeno con un’aspirazione alla felicità. «Non mi sorprende che Drake lo ascoltasse. Dal momento che io stessa non potrei fare a meno della musica di Bach, faccio fatica a immaginare qualcuno che possa vivere senza, ancor meno un’anima così delicata come Drake», dice Novaga. E ancora: «Hai ragione a parlare di trascendenza e di aspirazione alla felicità. Il concetto di “aspirare” a qualcosa di più alto, di più elevato, mi è molto caro e penso che dovrebbe essere lo scopo di qualsiasi azione. L’arte in particolare non dovrebbe avere altra ragion d’essere, se non quella di aspirare a migliorare il genere umano. Nella musica di Drake è estremamente forte l’aspirazione a qualcosa. Non so se si tratti di felicità, però».
Sulla copertina di The Artistic Image, Novaga è ritratta nell’Abbazia di San Galgano, che compare nel finale di Nostalghia di Tarkovskij, uno scenario perfetto per una musica ascetica come quella di Drake. Nick Drake a San Galgano potrebbe essere il suo Pink Floyd: Live at Pompeii? «È un’immagine bellissima: Nick Drake a San Galgano! Però ci vorrei anche gli archi di Kirby! – commenta Novaga -. L’immagine nella mia mente ha un che di soprannaturale: vedo un pubblico silenzioso, ordinato, già seduto, come se non fossero stati previsti i momenti chiassosi e caotici dell’ingresso e dell’uscita, e lui serissimo, elegantemente vestito con un abito scuro e una camicia bianca, un uomo ormai prossimo agli ottant’anni».

Se dovesse usare un suo pezzo, cosa ne farebbe? «Cercherei di restituire, usando uno stile molto rarefatto e scarno, una qualsiasi melodia delle sue canzoni del primo album, e la farei dialogare con le melodie degli archi in un modo più organico di quanto non succeda nel disco, quasi a creare un’ambiguità su quale sia la melodia principale e quale l’arrangiamento. È strano, perché rispetto alla musica di Drake, che si basa essenzialmente sulla chitarra e la voce che intona di seguito sempre le stesse frasi, Kirby sembra volteggiare intorno a lui con gli archi con uno stile diversissimo: sembra che suonino contemporaneamente ma in due stanze differenti. Nonostante questo il risultato è di una bellezza sorprendente!».

In questi 50 anni, che musica avrebbe fatto Nick Drake se fosse uscito dalla sua «confusione»? «È difficile immaginare un seguito di Pink Moon – risponde Stefana -. Penso che avrebbe scavato ancora più in profondità, realizzando qualcosa di completamente diverso. Così come fece Glenn Gould, che dopo aver interpretato la musica classica più bella in modo unico e straordinario, si ritirò dalle scene per dedicarsi alla realizzazione di documentari radiofonici, come la Trilogia della solitudine, in cui più persone pronunciano simultaneamente un monologo a un intervistatore inascoltato. Forse Drake avrebbe creato un’opera incentrata esclusivamente sulle voci, il vero strumento che lo ha reso unico». Voices è il pezzo che avrebbe dovuto aprire il suo quarto album. La tracklist è scritta a mano su un foglio datato settembre 1974. È uno dei documenti più commoventi contenuti nel libro di Morton-Jack, perché sembra aprire uno spiraglio su un futuro ancora possibile. Una crepa attraverso cui filtra la luce, come avrebbe cantato Leonard Cohen quasi 20 anni dopo.

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