Cultura

Nicanor Parra, lo sguardo che ha attraversato due secoli

Nicanor Parra, lo sguardo che ha attraversato due secoliNicanor Parra, insieme al suo quarto figlio Ricardo

ADDII Scompare all’età di 103 anni, lo scrittore cileno che aveva fatto dell’«antipoesia» un modo di vedere il mondo. Soprese, provocazioni, esperimenti, con alcune significative composizioni visuali con parole e versi. Molto amato, Harold Bloom per lui reclamava il premio Nobel e Roberto Bolaño lo idolatrava

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 26 gennaio 2018

Nel suo discorso di inaugurazione della Fiera del Libro di Santiago de Chile del 2010, Sebastián Piñera (allora al suo primo mandato, e oggi nuovamente eletto Presidente della Repubblica) fece omaggio ai presenti di uno dei suoi celebri strafalcioni, o gaffes, o stupidaggini senza perdono, definiti con apposito neologismo «piñericosas». Nel ricordare i grandi poeti cileni del presente e del passato – un’impressionante parata di nomi noti in tutto il mondo, da Neruda a Mistral, da Huidobro a de Rokha- incluse nella schiera dei defunti anche Nicanor Parra, che era invece vivissimo e ancora attivo, sia pure nella lontana solitudine di Las Cruces, un paesetto di duemila abitanti in riva all’oceano, dove si era ritirato da diversi anni.

PIÙ CHE CENTENARIO (era nato nel 1914 a San Fabián de Alico, sulla cordigliera andina), ormai fragilissimo ma lucido fino alla fine, Parra è morto invece il 23 gennaio di quest’anno ed è stato sepolto ieri in forma privata nel piccolo cimitero di Las Cruces, salutato dai figli, da molti nipoti, dagli amici e anche da Michelle Bachelet, Presidente in carica fino a metà marzo. Nei due giorni precedenti, però, le istituzioni, il governo e gli abitanti di Santiago si sono congedati dal poeta in modo ben più solenne e ufficiale, con due giorni di lutto nazionale, una veglia prolungata nella Cattedrale Metropolitana (luogo bizzarro, per qualcuno che diceva di sé: «Sono ateo, grazie a Dio») e una schiera di personalità, compreso quel Piñera che lo aveva prematuramente «ucciso». Il tutto, come sarebbe probabilmente piaciuto al defunto, tra molte polemiche e qualche sberleffo postumo: per poco, infatti, i parenti non si sono portati via la bara perché le autorità ecclesiastiche si rifiutavano di adottare come musica di accompagnamento le canzoni di Violeta Parra, amatissima sorella minore di Nicanor.

SUL FERETRO, inoltre, insieme a una vecchia coperta patchwork cucita in anni lontani dalla sarta Rosa Sandoval, madre degli otto fratelli Parra, è stato appoggiato un cartellino con su scritto «Vado e torno». Un cartellino che ha una storia, naturalmente, perché fa parte di un’opera di Parra intitolata El pago de Chile ed esposta per la prima volta nel 2006, con grande scandalo, nel Museo de la Moneda: un enorme crocifisso vuoto su cui è applicato un cartiglio con la frase «Voy y vuelvo», e dietro il quale penzolano (appese o impiccate?) le immagini dei presidenti cileni.

NEMICO DEGLI OMAGGI e delle celebrazioni inutili, ormai circondato da un vero e proprio culto del quale non poteva che ridere, nel corso della sua lunga vita Parra aveva fatto di tutto per demolire la solennità e l’autoreferenzialità della poesia ufficiale, conducendo per anni una sorta di personale «guerra fredda» con Pablo Neruda, spingendosi sempre più lontano e sperimentando di continuo, come del resto fecero, per altre vie, poeti cileni altrettanto eterodossi, dal quasi sconosciuto e singolarissimo Juan Luis Martínez a Enrique Lihn (del quale, tra l’altro, ricorre quest’anno il trentennale della morte). Proprio con Lihn e Jodorowsky, nel 1952 Parra aveva realizzato una serie di interventi riuniti sotto il nome di Quebrantahuesos (Spezzaossa), occupando i muri di vari luoghi di Santiago (per esempio della calle Bandera, di fronte al Tribunale) con testi creati utilizzando ritagli di giornali : un’opera di cui restano solo fotografie incluse nell’unico numero della rivista Manuscritos, del 1975.

Più tardi, nel 1966, Parra avrebbe cominciato a pubblicare i suoi famosi Artefactos, veri esempi di poesia visuale, come una serie di cartoline con testi, immagini, slogan, frasi in cui abbondano lo scherzo, le parole «volgari», le beffe, gli attacchi alla Chiesa e al potere, leggibili in qualsiasi ordine e contenuti in una scatola; nel 1970, poi, prese ad alterare l’ortografia e la punteggiatura, adottando segni e abbreviazioni che sembrano anticipare il linguaggio contratto e sintetico degli sms. Un passo in più sulla strada di quella che l’autore chiamava «antipoesia»: non una scuola, non una tendenza letteraria o una bandiera, ma un modo di vedere il mondo e l’arte, sull’onda di una continua e imprendibile ribellione, ma anche di una vita singolare e fuori dagli schemi.

PRIMOGENITO di una famiglia povera ed errante (il padre cambiava spesso mestiere e città), Parra fu l’unico dei suo fratelli a studiare e a laurearsi in matematica e fisica, lavorando per mantenersi, finché nel ’43 ottenne una borsa di studio per un dottorato negli Stati Uniti; nel ’49 un’altra borsa gli permise di frequentare l’università di Oxford per due anni, e per quarant’anni fu professore di fisica all’ Università di Santiago: uno scienziato, dunque, e di un certo prestigio.
Ma prima di tutto un poeta, che aveva cominciato a scrivere i primi versi quando ancora frequentava il liceo, e nel 1937 aveva esordito con un primo volume tutt’altro che antipoetico e vagamente ispirato a García Lorca, Cancionero sin nombre, che in qualche modo si opponeva all’ermetismo , al surrealismo, al soggettivismo allora in voga: una prima tappa di breve durata, destinata a lasciare il posto a una poesia diversa da tutte le altre, secca, aspra, sarcastica, che fa largo uso dell’umorismo e dell’assurdo, passando di frequente dal verso libero al ritmo e al metro del verseggiare popolano e popolare, quello che Violeta inseguiva nella sua musica. Era, quello di Parra, un tentativo di fare poesia con parole comuni e chiare, con persone, voci, oggetti di tutti i giorni, cercandola dove nessuno l’aveva cercata, togliendole sacralità, annullando le distanze tra verso e vissuto, insomma calandola interamente nella vita.

A PARTIRE dal suo secondo libro Poemas y antipoemas, del 1954, fino al ventiquattresimo e ultimo Antiprosa, del 2015, l’opera di Parra è una fonte continua di soprese, provocazioni, esperimenti, passaggi dall’avanguardia alla più cilena e maliziosa della «cuecas»: quasi un succedersi di piroette e balzi destinati a sottrarlo alla sistematicità dell’ approccio critico (e lo sa bene Ignacio Echeverría, il critico spagnolo che ha curato per Lumen l’edizione della sue opere complete); e altrettanto mutevole era stata, negli anni, la sua posizione politica, mai veramente definita: di sinistra in gioventù, sinceramente democratico ma deluso da tutto durante la maturità, capace di prendere il tè con la moglie di Nixon negli anni ’70, nel corso di un incontro ufficiale tra poeti a Washington (un episodio che non gli venne mai perdonato), apertamente critico nei confronti della dittatura ma con scarsa simpatia per Unidad Popular, e, per una buona metà della sua vita, fermamente ecologista e ossessionato dalla distruzione della natura e del pianeta.

CHE LO VOLESSE O NO, per ironia della sorte e nonostante l’ isolamento volontario in una casetta spartana e remota, l’incapacità di «parlare sul serio» e la dichiarata vocazione di guastafeste, Parra ha finito comunque per condividere lo stesso pantheon degli autori che non gli piacevano e che contrastava: un poeta carico di onori («È la prima volta che ottengo un premio immeritato» disse, quando gli fu assegnato il Cervantes, «e spero che non sia l’ultima!»), per il quale Harold Bloom reclamava il premio Nobel e che Roberto Bolaño idolatrava in modo quasi adolescenziale. Un poeta ultracentenario che non ha mai smesso di scrivere della morte, soprattutto della propria, dettando in una lunga poesia i suoi desideri per una eccentrica veglia funebre, per concludere infine che, una volta chiusa la sua sepoltura, tutti potranno fare quel che vogliono, ridere, piangere, ballare, ricordandosi però di mantenere un minimo di compostezza se urtano una lapide, perché «in quel buco nero vivo io».

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