Ospite della recente edizione del Bookpride a Milano, il fumettista bolognese Edo Massa è in libreria con il suo secondo graphic novel Pensi di stare meglio? (minimum fax) un racconto autobiografico che esplora la sua relazione con la psicoterapia. Non è la prima volta che il fumettista si occupa di neuro divergenza e di salute mentale, visto che il suo primo fumetto Siamo tutti autistici? (Becco Giallo, 2022) racconta l’esperienza di Cascina Cristina, un progetto di community farm inclusiva dove vivono persone con vari disturbi ascrivibili allo spettro autistico. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Ci sono punti di contatto e differenze tra i tuoi libri: il primo è quello tematico, ma mentre «Tutti autistici?» è un reportage, «Pensi di stare meglio?» è un racconto autobiografico. Come nascono questi lavori e come ti sei rapportato alla loro diversa natura?
Sì, entrambi hanno un titolo che finisce con un punto di domanda…Nel primo caso l’idea del fumetto era quella di avvicinare le persone a un dubbio, a una realtà che in molti conoscono parzialmente. Una parte abbastanza centrale del racconto è quella dove rappresento le peculiarità di ognuno degli abitanti della farm, otto pagine con vignettine che descrivono caratteristiche- ansie, fobie, punti di forza specifici- che il lettore può ricercare in sé e nell’eventuale propria patologia per immedesimarsi per fargli dire «anch’io sono un po’ autistico?!?» e per ribadire l’ovvio, ovvero che tutti siamo diversi. Entrambi i libri parlano del benessere psicologico, ma in quel caso sono entrato in punta di piedi nella narrazione, perché non potevo permettermi di raccontare cose attraverso il mio personaggio. In Pensi di stare meglio?, il processo è inverso: mostrare il fianco il più possibile per trasformare il mio universo personale in un personale universale.

E questi punto interrogativi finali nel titolo?
Sono una persona che si pone molte domande. Poter scrivere un libro, potermi tradurre graficamente mi sembra un sogno e spesso mi chiedo se davvero posso farlo e perché lo sto facendo. Questo mi porta a far domande anche al lettore attraverso la copertina. Nel secondo caso in quarta di copertina c’è un disclaimer sull’aspetto autobiografico che è la vera cifra del lavoro, un avviso ai naviganti.

Il prologo si svolge nella stanza della terapeuta; il suo punto di vista coincide con quello del lettore al quale il paziente racconta la teoria di Dunning-Kruger. Sembra un modo per introdurre la questione della percezione del sé, che è ciò che si porta in terapia. È stato anche il tuo caso?
Il problema della percezione del sé è molto condivisibile. Sono andato in terapia perché mi sono accorto che avevo cambiato città, compagna, cerchia di colleghi, ma non cambiavo io, né i miei schemi di comportamento. Una amica mi ha consigliato di andare in psicoterapia ed ho seguito il consiglio. La percezione di sé è una questione centrale nel nostro tempo.

La struttura temporale del racconto oscilla tra anticipazioni e riprese, punteggiati da numerosi interventi metatestuali, con personaggi che riconoscono e commentano il comportamento del protagonista: una tecnica assimilabile alla rottura della quarta parete in teatro, un dispositivo che usi frequentemente.
Mi piace e non riesco a trattenermi da farlo: credo che sia una mia debolezza, legata anche allo stupore di fare questo lavoro e di poter fare un libro. Il fatto di non essere così sicuro di me è una fragilità che allo stesso tempo apprezzo perché immagino sia condivisa. Per questo quando mi pongo domande come «davvero faccio bene a dirlo?» finisco per scriverle e lo disegnarle. È un trabocchetto per il lettore, del quale in questo modo anticipo la domanda, aprendo il ventaglio delle possibilità narrative, introducendo un’incertezza che si estende all’andamento della storia.

In fondo questo è anche quello che facciamo con le nostre vite, con processi costanti di riflessione e introspezione, soprattutto in terapia o dopo. Non credi?
Assolutamente, e magari incorriamo negli stessi errori-anzi come ricorda la mia terapeuta nel fumetto-situazioni, ma lo facciamo consapevolmente.

Il tuo stile grafico oscilla tra un segno molto essenziale dove le figure umane sono quasi stilizzate, poco realistico anche se molto espressivo, e uno invece molto dettagliato e realistico, dove appaiono ombre e tratteggi, più classico.
L’idea è quella dell’interruttore: mi piace far coesistere questi due ambienti grafici. Se voglio concentrarmi su un’espressione in certi casi basta calcare sulle caratteristiche di un volto. Lo stupore si disegna con bocca aperta e occhi spalancati. Se invece voglio raccontare di una dimensione, un’emozione, i disegni sono più pieni e certo questa scelta dipende da dove voglio condurre l’attenzione del lettore.
Credo che sia una strategia per rendere la lettura scorrevole, visto che la struttura del racconto non è lineare, la storia è ellittica, l’inizio in parte coincide con la fine, certe battute ritornano in momenti paralleli. Per me lo stile è anche un modo per mettere in contatto l’ambiente e il sé.

Molte sequenze si svolgono nella stanza della terapeuta che non vediamo mai ma alla quale a un certo punto scegli di assegnare il compito di proseguire il tuo lavoro e andare avanti con il fumetto. Una parte in bianco e nero che mette a nudo molti dei meccanismi del linguaggio fumetto. Da cosa viene questa idea?
Quelle che il lettore vede sono esattamente le parole della terapeuta. Da una parte il paziente-in questo caso io- sperimenta una curiosità morbosa per la propria terapeuta, immaginandosi cosa pensi di lui.
Nel mio caso, ero molto intrigato da questo pensiero e quindi le ho assegnato un compito che normalmente faccio io. Le ho dato un pezzo della mia storia, che si colloca a metà del libro, senza che vedesse cosa accedeva prima o dopo.
Mosso dalla volontà di conoscere la sua percezione di me, ho provato a incastrarla con questa proposta. Lei, da vera professionista, non ci è cascata, ha inserito elementi scientifici nel racconto, come la terapia EMDR. Quindi la mia malizia è caduta nel niente: ha fatto un lavoro eccellente, senza accorgersi di aver inserito pezzi reali della terapia e anche della sua persona.

Morte e amore sono presenti in ogni terapia che si rispetti e sono elementi comuni a molte narrazioni, anche alla tua. In che misura l’atto narrativo è terapeutico?
Fa bene leggere racconti e scriverne. È stata un’operazione vincente per il mio benessere psicologico; sono convinto che se la storia entusiasma me, entusiasmerà anche qualcun altro.

Nel fumetto ci sono personaggi che provengono dal mondo dell’entertainment: la tua amica Caterina ha le sembianze di Golum, c’è Batman, che offre consigli da maschio alfa e anche una squadra di poliziotti, la Queer police. Si tratta di incursioni meno realistiche che introducono il tema degli stereotipi di genere. Quanto può influire il pensiero normato che determina le aspettative sociali sul nostro disagio psicologico?
Questo pensiero ha un peso notevolissimo che si traduce in un interrogativo quotidiano. La norma è una dimensione che si dà per scontata, qualcosa che l’esterno ha deciso per me. Parlo da una situazione di privilegio.
Batman, Caterina/Golum e Queer Police, sono come un Cerbero a tre voci: Batman è la voce «mucho macho»; la voce del mio orientamento è quella della Queer Police; quella di Caterina che mi dà consigli per affrancarmi dalle potenziali derive della mascolinità tossica. Nel fumetto riesco a non ascoltare nessuna delle tre e lascio primeggiare la mia voce, così come dovrebbe accadere nel percorso terapeutico: ascolto le voci di questi personaggi, finché però non esperisco io quello che loro suggeriscono, non riesco ad evolvere.