Netanyahu si congratula con Trump ma Israele chiede molto di più
Siria Israele applaude al presidente americano che ha tenuto fede alla promessa di attaccare la Siria. Ma Tel Aviv voleva ben altro dai raid che non hanno cambiato nulla sul terreno e hanno evitato di colpire le postazioni dell'Iran e di Hezbollah in Siria
Siria Israele applaude al presidente americano che ha tenuto fede alla promessa di attaccare la Siria. Ma Tel Aviv voleva ben altro dai raid che non hanno cambiato nulla sul terreno e hanno evitato di colpire le postazioni dell'Iran e di Hezbollah in Siria
Benyamin Netanyahu si congratula con Donald Trump che ha dato il via, assieme a Londra e Parigi, ai raid contro la Siria. Quei missili sarebbero la prova dell’impegno Usa a fermare «l’uso di armi chimiche», sostiene il premier israeliano che ieri ha lanciato un avvertimento minaccioso al presidente siriano Bashar Assad perché permetterebbe all’Iran di consolidare la sua presenza in Siria. Parla di «importante avvertimento» a quello che descrive come l’asse del Male – Iran, Siria e movimento sciita libanese Hezbollah – anche il ministro delle costruzioni Yoav Gallant. Eppure dietro le quinte Netanyahu, i suoi ministri e i generali scuotono la testa. Trump parla di «missione compiuta» ma i suoi missili «belli e intelligenti», e quelli di Macron e May, non hanno cambiato nulla sul terreno a favore degli interessi di Israele. Interessi che non sono mirati, come affermano e scrivono i suoi leader, a punire i “cattivi” che usano armi proibite. «I missili di venerdì notte hanno lasciato le cose come stanno – ci spiega l’analista Mouin Rabbani – Trump e i suoi alleati sono stati attenti a non innescare la risposta militare del Cremlino, dell’Iran e pure della Siria. Si è trattato di un attacco limitato nella potenza e negli scopi che non ha riguardato alcuna delle questioni che davvero interessano a Israele». L’agenda israeliana in Siria, aggiunge Rabbani, «è molto più ambiziosa e Netanyahu sa che Israele è solo nonostante l’appoggio che gli offre Trump. I motivi dello scontro tra Iran e Israele sono ancora tutti lì».
Netanyahu non vuole che Tehran consolidi la sua presenza militare in Siria, specie dalle parti del Golan oltre il quale Israele conta di costituire una sorta ”fascia di sicurezza”, in profondità nel territorio siriano meridionale, sotto il controllo di una o più formazioni “ribelli” schierate contro il presidente Bashar Assad. Tehran e Hezbollah, in appoggio all’esercito siriano, possono impedirlo. Se poi l’Iran da postazioni in territorio siriano riuscisse a mettere sotto tiro, con i suoi missili balistici (ben più precisi di quelli in possesso di Hezbollah), l’intero territorio israeliano, allora finirebbe per avere in mano un potere di detetterenza tale da indurre lo Stato ebraico a pensarci due volte prima di lanciare un attacco alle sue centrali nucleari. «Missione compiuta ha detto Trump, per Israele non è neppure cominciata» sottolinea Rabbani «e Netanyahu l’ha dimostrato a inizio settimana quando ha ordinato alla sua aviazione di colpire la base aerea siriana T4, dove ha ucciso sette consiglieri militari iraniani, entrando in un pericoloso faccia a faccia con Tehran». Il premier israeliano, conclude l’analista, «sa che i russi, dopo l’attacco alla base T4, sono meno pronti di prima a tenere conto delle preoccupazioni di Israele riguardo ai progetti iraniani in Siria, come gli ha spiegato Vladimir Putin qualche giorno fa». L’attacco di venerdì notte perciò non ha allontanato, anzi, potrebbe aver avvicinato la resa dei conti tra Iran e Israele che ieri ha chiuso lo spazio aereo sopra il Golan siriano che occupa dal 1967.
Lo show di Trump rischia di complicare anche i piani americani per il nord della Siria. Il presidente Usa a fine marzo aveva annunciato, tra le proteste dietro le quinte di Israele e dell’Arabia saudita, il ritiro (almeno a parole) dei soldati americani dalla Siria per lasciare alle milizie curdo/arabe addestrate e appoggiate da Washington il compito di controllare la vasta porzione di territorio che dal nord scende verso est fino alla città Deir Ezzor, liberata mesi fa dall’esercito siriano. Gli Usa in quella vasta area, che include la diga sull’Eufrate di Tabqa, tengono le mani strette su alcuni importanti giacimenti petroliferi siriani (come quello di al Omar), sottraendo a Damasco risorse energetiche e finanziare vitali. A gennaio era stato molto chiaro l’ex Segretario di stato Rex Tillerson quando aveva spiegato che le truppe Usa (tra 2000 e 4000, più i contractor) sarebbero rimaste in Siria «per garantire che né l’Iran né il presidente Bashar al Assad della Siria prenderanno il controllo di quelle aree» rimaste per anni sotto il controllo dei miliziani dello Stato islamico. Trump ha poi preso una decisione diversa che ora potrebbe cambiare e non solo per il malumore di sauditi e israeliani. «La Siria con l’appoggio della Russia potrebbe rispondere all’attacco di venerdì notte lanciando un’offensiva militare per riprendere il territorio settentrionale e strapparlo al controllo Usa e delle milizie curde e arabe», avverte Mouin Rabbani. Sarebbe la fine della “partizione” della Siria che piace ai nemici di Bshara Assad, con aree sotto l’influenza di Turchia, Israele, degli Usa e un territorio ampio centrale sotto il controllo di Damasco. Il 7 febbraio le forze armate siriane avevano inviato un battaglione per recuperare un impianto di gas vicino a Deir Ezzor ma furono respinte, con molte perdite causate dai bombardamenti aerei americani. Stavolta, con i russi decisi a farsi sentire, le cose potrebbero andare in modo molto diverso.
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