Qualche giorno fa, è stato presentato alla stampa online il Manifesto della salute mentale, cui – oltre ai promotori – aderiscono esponenti della società civile, società scientifiche e associazioni di operatori del servizio pubblico e del terzo settore.

IL DOCUMENTO sottolinea la regressione culturale e politica nel modo con cui la Polis affronta la questione della sofferenza psichica. I muri manicomiali sono scomparsi, ma la linea di demarcazione tra «sani» e «malati» persiste nella sua immaterialità pervasiva. La separazione non è solo tra «noi» e «loro», ci attraversa internamente: divide, creando incomunicabilità, la parte di noi che sta bene dalla parte che sta male. Si pensa che la sedazione pura della sofferenza degli altri ci renda invulnerabili al loro dolore. In realtà, la «malattia mentale» sedata diventa malessere sordo, squallore esistenziale che avvelena la vita di tutti.

LA SOCIETÀ senza dolore, anestetizzata, è una società malata, depressa e impulsiva. Da una parte depriva i bambini e gli adolescenti dei loro spazi di esperienza; dall’altra, produce un malessere esistenziale vischioso e asintomatico che, degenerando nella sua solitudine, arriva a produrre automi contratti psichicamente, normotipi della quotidianità distratta da se stessa, che improvvisamente implodono/ esplodono spargendo la morte. La cura farmacologica del dolore dissociata dal lavoro psicoterapeutico (nei servizi pubblici le psicoterapie rappresentano un 6% delle cure erogate) e dal complesso lavoro dei inserimento socioculturale e lavorativo nella comunità in cui si vive, lascia inevasa la domanda di soggettivazione della propria esperienza e di rivendicazione del diritto dì cittadinanza (negato di fatto al soggetto che ha perso il suo posto nel mondo).

IL FARMACO È CHIAMATO a una funzione impropria rispetto alla sua reale capacità di alleviare, rendere tollerabile il dolore e il suo uso diventa abusivo e abusante. Nella misura in cui il modello biomedico che insegue questa prospettiva, incurante del dialogo con gli altri saperi, pretende di costituirsi anche come paradigma dei modi di prendere cura dei nostri sentimenti, diventa una pericolo per la libertà e per la democrazia.
Il rinnovamento della salute mentale nel Ssn, sin dalla riforma psichiatrica del 1978, che il Manifesto persegue, si fonda su pochi ma essenziali principi: senza un servizio pubblico ben funzionante l’intero sistema della cura psichica va in crisi; la persona sofferente deve essere presa in cura all’interno della comunità in cui vive; la terapia non è assistenza, ma un prendersi cura che include i desideri di operatori e soggetti sofferenti.

LO STRUMENTO della cura è l’equipe territoriale che ha un approccio multidisciplinare all’interno del quale le diverse professionalità e prospettive scientifiche dialogano e collaborano tra di loto e con le associazioni degli utenti e dei loro familiari.
Il progetto di un ripensamento della salute mentale (per potenziarla) non è un’operazione nostalgica. Intende, tuttavia, recuperare tutte le acquisizioni della legge 180, oggi largamente disattese, il pluralismo scientifico che per molti anni ha consentito un approccio alla sofferenza umanizzante e non tecnicistico e una civiltà della cura che aveva accantonato tutte le pratiche di contenzione violenta, oggi incredibilmente riammesse. Scuotere le coscienze è necessario per uscire dalla spersonalizzazione dei dispositivi terapeutici, ma, al tempo stesso, la validità dei trattamenti sotto il profilo della qualità della vita e la loro capacità di farsi carico del dialogo tra il singolo e la collettività, fanno respirare i sentimenti e i pensieri di tutti.
La formazione degli operatori deve essere eccellente: questo significa renderla più rigorosa e soprattutto intervenire sulla preparazione accademica, oggi molto influenzata da interessi di parte, da rendite di posizione poco scientifiche. Il sostegno reciproco tra le equipe territoriali e le comunità in cui esse lavorano è molto importante ed è il miglior modo per evitare di precipitare negli anfratti di una società malata. La cura della società, nell’ambito del servizio pubblico, non passa attraverso le linee guida di un astratto «benessere psicologico», una sorta di fitness psichica. Deve farsi carico delle situazioni concretamente e potenzialmente patogene, agendo in senso preventivo, ed è necessaria la collaborazione con prassi creative e saperi esterni alla salute mentale. La collaborazione sul piano clinico e della ricerca tra i dipartimenti della salute mentale, le università e le società scientifiche, alcune delle quali hanno attivato servizi di consultazione e di terapia rivolti al disagio sociale, è altrettanto necessaria.

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Il «Manifesto della salute mentale» vede fra i suoi promotori Angelo Barbato (Istituto farmacologico Mario Negri), Antonello D’Elia (Presidente della Psichiatria democratica), Pierluigi Politi (ordinario di Psichiatria, Università dì Pavia), Fabrizio Starace (Presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica), Sarantis Thanopulos (presidente della Società psicoanalitica italiana)