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«Nessuno basta a se stesso, nella vita e nella musica»

«Nessuno basta a se stesso, nella vita e nella musica»John Legend

John Legend Parla l'ordinario ragazzo dell'Ohio, diventato la stella del new soul

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 12 ottobre 2013

John Stephens ha una passione per la musica cresciuta insieme a lui tra il giradischi di casa, il piano suonato dalla nonna e il coro della chiesa. Un ordinary boy nato a Springfield in Ohio, che finite le superiori lascia la cittadina d’origine per la Pennsylvania State University. Se non che a vent’anni John si trova seduto davanti al pianoforte per suonare Everything is everything, terzo singolo di The Miseducation, esordio solista di Lauryn Hill uscito nel 1998 post Fugees.

Segue un album dal vivo, Live at Sob’s New York City datato 2003, periodo in cui un certo Kanye West, già noto come produttore, ma appena agli inizi della sua carriera di rapper, comincia con lui una lunga collaborazione e gli suggerisce di abbandonare il cognome e sostituirlo con Legend. Nome con cui nel 2004 firma Ordinary people, «ancora oggi è la mia composizione più importante – spiega il soul man – dove la gente si immedesima in una storia d’amore tra due persone comuni e disorientate.

A distanza di nove anni da Get Lifted, album di debutto in cui è inclusa quella traccia, John Legend torna con il suo quarto lavoro in studio, Love in the future, uscito ai primi di settembre in cui lo sguardo dell’artista è rivolto al domani «sia a livello professionale, sia in prima persona». Parte del senso complessivo della raccolta, è inserirsi nella tradizione soul rileggendola in chiave contemporanea. Poi c’è l’evoluzione personale, l’amore e l’idea di una famiglia in futuro».

Il riferimento sono le recenti nozze di Legend, la moglie è infatti la musa ispiratrice di All of me, terzo singolo dell’album, lanciato da Who do we think we are e dal secondo estratto Made to love: «un brano dalla genesi molto particolare, i cui beat sono curati da Dave Tozer e Nana Kwabena, mentre la traccia vocale è firmata da Kimbra. Kanye però non era del tutto convinto dei beat, così abbiamo coinvolto Da Internz, un duo di producer di Chicago. Kanye in questo disco è stato fondamentale: è produttore esecutivo dell’album, ha curato alcune canzoni e di altre è coautore dei testi, oltre ad aver dato supporto su artwork, fotografi e registi da scegliere».

Accanto a West e Legend in Love in the future troviamo un altro amico, «È Common, che in una sua composizione The Light aveva inserito un sample di Open your eyes di Bobby Caldwell. Parlando di quel pezzo tutti e tre insieme abbiamo pensato funzionasse bene riproporne una cover estesa nel mio album». Un album che suona come un viaggio nel tempo, dove John Legend torna alle radici e alla storia con la s maiuscola della black music mutuandola con suoni contemporanei, «Un passato che ho studiato all’università, dove ho compreso meglio il mio background musicale e storico. Inoltre lo studio dedicato ai grandi pensatori e compositori ti consente di scrivere e eseguire musica migliore».

Non è un caso quindi che nel 2007, sia stato insignito di uno di uno Starlight Award dalla prestigiosa Songwriters Hall of Fame. «Per scrivere bei pezzi bisogna essere bravi storyteller, far scorrere fluide melodia e parole, oltre a essere generosi di dettagli specifici e universali allo stesso tempo. Se una canzone è buona, chiunque ci si ritrova. Ogni canzone poi si sviluppa secondo direzioni non sempre prevedibili, che spesso variano molto anche grazie alle nuove idee in cui ci si può imbattere collaborando con qualcuno».

Wake up! (il suo lavoro precedente) ne è un esempio: nato dall’incontro tra Legend e The Roots è un disco di pezzi militanti realizzato tra il 2009 e il 2011: «tutto classic soul, niente di elettronico, suonato con strumenti analogici, anche gli arrangiamenti sono molto diversi rispetto a Love in the future. Però entrambi gli album rappresentano il meglio di ciò che ho fatto a livello vocale ad oggi. Wake up! in particolare mi ha aiutato a sbloccare la voce e a catturare l’energia della performance dal vivo in studio. Era un disco che affrontava nei testi questioni socio politiche. E devo anche ammettere che l’attivismo in musica è molto calato in America. Penso sia un segno del tempo, forse la gente è meno interessata quasi anestetizzata nei confronti dei conflitti che hanno generato tante perdite e molto dolore». Eppure il vocalist americano canta di sentimenti, non di battaglie sociali ma «se potessimo chiedere a Marvin Gaye o a Stevie Wonder che ne pensano, direbbero che è possibile conciliare entrambe le cose. Loro sapevano scrivere tracce belle e… sexy, e cantarlein maniera convincente per dare coraggio alla gente in difficoltà. Alla fine è sempre solo una questione d’amore, per una donna o per il prossimo non fa differenza, il punto è trattarsi con uguaglianza».
Tematiche che ritornano in The people speak, un documentario del 2009 basato sul libro di Howard Zinn A people’s history of the United States, dove la storia degli Usa viene raccontata attraverso lettere e discorsi di ordinary americans, tra cui Muhammad Ali. E il celebre discorso del campione del mondo contro la guerra in Vietnam, viene inserito in un sample nel disco. Un altro mito in cui l’artista non crede è il self-made man: «completamente falso, nonostante sia radicata nell’immaginario americano come idea, nessuno basta a se stesso, nessuno si fa da sé, né nella vita, né nella musica».[do action=”citazione”]Su Obama nutre qualche riserva ora: «Sono ancora suo sostenitore, ma deluso da quello che sta facendo il Congresso: noi parliamo del Presidente come se fosse onnipotente, ma in realtà può essere bloccato da una minoranza, come sta succedendo con lo shut down».[/do]

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