Cultura

Nessun hacker è un archetipo

Nessun hacker è un archetipo

Scaffale «Utopia del software libero» del sociologo francese Sébastien Broca, edito in Italia da Mimesis

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 27 ottobre 2018

Siamo per il software libero e il copyleft perché la conoscenza e le idee siano senza padrone e corrano senza vincoli in mezzo a tutti, siamo per il mutualismo e l’ecologia sociale affinché ci sia più giustizia e migliori condizioni di esistenza per esseri viventi e non-viventi, ma tutto questo sembra non bastare.
Il motivo è che a volte l’adesione a questi principi resta esclusivamente intellettuale, professata ma non vissuta, sentita, forse, ma non esperita.

IL RISCHIO DI QUESTO DISTACCO, di questo ripiegamento, è sempre presente nelle attività intellettuali e riguarda da vicino soprattutto quelle persone impegnate dentro percorsi accademici. Perché lì l’eventualità di venire assoggettati a dinamiche produttiviste, concorrenziali e prestazionale – e così perdere di vista il piano di immanenza del qui e ora – è molto forte.
Utopia del software libero di Sébastien Broca – edito in Italia da Mimesis e curato da Giorgio Griziotti – è un bel testo di avvicinamento alla cultura hacker, accurato nei riferimenti storici all’ambiente da cui ha tratto origine e nei riguardi del milieu generato dalla potenza di quelle pratiche.

A volte, però, si ha l’impressione che l’autore e sociologo francese Sébastien Broca parli degli hacker come se non avesse mai incontrato uno. Ne parla da lontano, come se non sapesse cosa sono, come un antropologo ottocentesco impegnato a descrivere gli usi e i costumi di abitanti di terre remote. Certamente non è così, ma l’impressione è data da una sorta di approssimazione usata per indicare il soggetto della scena: l’hacker, il programmatore, il sostenitore del software libero (incomprensibilmente tradotto in italiano con l’espressione un po’ ridicola di «liberista»), i simpatizzanti dell’open source, i maker, il Do It Yourself. Tutti accomunati, secondo l’autore, dalla cosiddetta «etica hacker» che tuttavia si ridurrebbe all’autonomia nel lavoro, a una relazione diversa con gli strumenti tecnologici e alla difesa della libera circolazione dell’informazione. Tutto qui?
Forse Broca, nel tentativo di identificare dei tratti comuni in un’area complessa e frammentata si è trovato costretto a prendere in considerazione principalmente questi aspetti. Allora però la domanda da porsi è: perché tenere insieme soggetti e pratiche tanto diverse?

UNA POSSIBILE RISPOSTA può essere che il sociologo francese abbia voluto agire in questo modo per tentare di dare un volto allo spirito del tempo, e così renderlo riconoscibile e, magari, protagonista di nuove invenzioni sociali, nuove vie di fuga dal capitalismo. Il software libero sarebbe dunque una sorta di archetipo che emerge da alcune pratiche di condivisione-collaborazione e che si «incarna» di volta in volta in ambiti diversi.

SIGNIFICATIVA, in questo senso, è la volata finale del libro, in direzione del general intellect e del reddito universale. Una volata che mostra tuttavia parecchi nodi irrisolti e questioni aperte per nulla scontate, come ammette lo stesso Broca.
Sarebbe quindi un errore ridurre il testo a una retorica sulla collaborazione che usa la vicenda del software libero al fine di perorare la causa del comune e dei beni comuni, il peer-to-peer come inveramento del general intellect.
Utopia del software libero sembra dire allo stesso tempo troppo e troppo poco, troppo nel tentativo di tracciare una linea che vada dal bricolage informatico alla reinvenzione sociale, come recita il sottotitolo.

ALCUNI ELEMENTI che l’autore accomuna fanno eccessivamente attrito fra loro, la volontà di sintesi tende a elidere molte differenze di visione importanti, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti sociali, anti-capitalistici e di autonomia digitale che caratterizzano hacking più impegnato. Troppo poco per quanto riguarda l’ambiente sociale e culturale che ha dato avvio a questo processo: la California che va dagli anni ’50 agli anni ’80 del ’900, con San Francisco culla della contro-cultura beat, dell’ingegneria informatica, della psichedelia e dell’anarco-capitalismo.

A FIANCO DELL’HACKING ludico c’è sempre stato quello politico e in alcuni ambienti le cose vanno insieme, come nei migliori hacklab. Ciò significa che queste pratiche possono e sanno incrociarsi con altre istanze del nostro contemporaneo, dal mutualismo al gender trouble, dal municipalismo all’anti-razzismo, alle lotte no-border, dalla liberazione (animale) all’ecologia (sociale). Se uno spirito comune con l’hacking va rintracciato, è qui che andrebbe cercato, per affinità.

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