Nell’urna fa paura l’immigrato dell’est
Gran Bretagna A pochi giorni dal voto Miliband e Cameron si contendono gli elettori soffiando sui timori dell’immigrazione
Gran Bretagna A pochi giorni dal voto Miliband e Cameron si contendono gli elettori soffiando sui timori dell’immigrazione
In una campagna incentrata ormai sulla capacità o meno di Ed Miliband di fare il primo ministro – è di questi giorni l’attacco personale più duro di Cameron al leader laburista, reo di consegnare il destino dell’Unione ai secessionisti dell’Snp – i due leader continuano a fingere di puntare a una maggioranza assoluta. Perché sanno benissimo che qualunque alleanza saranno costretti a formare nell’assai probabile eventualità che nessuno raggiunga tale maggioranza finirà per scontentare il proprio elettorato.
La trimurti di questa campagna elettorale sono l’economia, la sanità pubblica (Nhs) e, naturalmente, l’immigrazione, dal 2014 la questione più saliente nei dibattiti parlamentari e non. Ma perdura un’incertezza generale: su chi dall’8 maggio governerà il paese, ma soprattutto cosa questo partito (o coalizione) faranno sull’immigrazione, l’unico tema in grado di dar vita ad un partito e di esaurirne il programma, come l’Ukip dimostra chiaramente.
Nessuno infatti, a parte i verdi, si è davvero sforzato di guardare la luna dell’ «inesorabile» globalizzazione, anziché il dito dell’immigrazione che la indica. In particolare, si ignora se gli attuali, irrealistici obiettivi dell’uscente coalizione saranno confermati, modificati o abbandonati. Non si sa in che modo, qualora saranno mantenuti, la mutevole situazione economica condizionerà il nuovo governo nel soddisfare simili obiettivi, soprattutto se l’attuale crescita dell’economia nazionale continuerà a spingere le cifre sia dell’immigrazione europea che di quella extraeuropea. Si brancola nel buio, infine, circa la possibilità che il famigerato referendum sulla partecipazione all’Ue che Farage e gli ultrà euroscettici conservatori hanno strappato a Cameron si terrà davvero, per tacere dell’esito e delle sue conseguenze sulla possibilità stessa di trasferirsi in Uk da parte di cittadini stranieri.
Ma vediamo le politiche Tory in proposito. I conservatori avevano inserito nell’agenda della coalizione con i Lib-Dem un obiettivo del tutto irrealistico di riduzione delle percentuali sull’immigrazione, strombazzato da una campagna elettorale costruita interamente sulla demonizzazione del presunto lassismo Labour, una responsabilità talmente introiettata da Ed Miliband da indurlo ad ammettere gravi responsabilità del suo partito in materia. Incautamente, Cameron aveva promesso quel che nessun paese europeo a capitalismo maturo può promettere: la riduzione del tasso di migrazione netta, cioè la differenza, da dividersi per mille, fra chi entra e chi esce da un paese straniero in un determinato periodo di tempo.
La riduzione di tale valore a «poche decine di migliaia» è stato l’amo lanciato dai Tories: una boutade, certo, che col fare però leva sulla più intestinale retorica populista garantisce sempre una presa sicura. Soprattutto su un’opinione pubblica che si sente sempre più soffocata dall’abbraccio delle ex vittime del socialismo reale, la cui liberazione dal giogo totalitario si è tradotta negli ultimi 25 anni in uno slancio uguale e contrario verso le gioie dei consumi occidentali. Le cifre che allarmano Cameron, Miliband e che hanno in buona parte prodotto Farage sono infatti soprattutto quelle relative alla migrazione dall’Europa orientale – in constante ascesa -, contrariamente a quelle della migrazione da paesi extraeuropei, che si sono mantenute stabili.
Com’era ovvio, simile riduzione è stata tutt’altro che raggiunta. La triplice matrice dell’immigrazione – lavoro, ragioni familiari e studio – è stata sì fatta oggetto di una serie di misure di contenimento, ma solo per quanto riguarda quella di provenienza extraeuropea. In quanto membro dell’Ue, la Gran Bretagna non può fare nulla per contenere la libera circolazione di uomini e di merci: un necessario capestro dal quale Ukip e destra conservatrice sentono di dover salvare il paese. E se tali misure hanno di poco inciso sul tasso migratorio netto extra-Ue, il problema vero sono proprio i flussi dall’Est Europa, in particolare da Polonia, Paesi Baltici, Romania e, più recentemente, Bulgaria. Nei quali anche l’Italia è assai ben rappresentata. Qualche cifra. La migrazione netta in Uk alla fine del 2014 si stima attorno alle 298.000 persone, contro le 244.000 alla pubblicazione del programma dei conservatori, nel 2010. Sempre nel 2010, 196.000 di queste erano cittadini provenienti da fuori dell’Ue. Tale valore è sceso drasticamente nel 2012/13 per poi rimbalzare alla fine del 2014 a 190.000 persone. Il declino iniziale era dovuto in gran parte al calo degli studenti, ai quali i visti non vengono più concessi liberamente, mentre la risalita lo era all’aumento degli arrivi per motivi familiari o professionali. Ma l’aumento sostanziale viene dalla migrazione europea interna, più che raddoppiata tra il giugno 2010 e il settembre del 2014, passando da 72000 a 162000 ingressi, soprattutto grazie al relativo successo dell’economia nazionale se paragonata a quelle di altri stati membri dell’Unione.
La riduzione dei fondi socialmente destinati a compensare tale incremento demografico è stata vittima dell’ondata di tagli inflitti dalla coalizione uscente. Questo ha significato meno soldi stanziati a fronte di una rinnovata pressione su servizi quali scuola e sanità nelle aree più popolate da immigrati e il conseguente aumento d’insofferenza nei loro confronti, soprattutto nelle città costiere dell’Inghilterra, terra tradizionalmente fertile per l’Ukip. E ha corroborato la comoda certezza che l’arrivo di manodopera non qualificata dai membri recenti della Ue stia abbassando i salari e riducendo le possibilità d’impiego ai cittadini britannici. Poco importa che al contributo dell’immigrazione si debba almeno lo 0,5% della stentata ripresa economica.
Per questo, mondare il paese dall’utile piaga dell’immigrazione è ormai una priorità dal centro sinistra alla destra. Visto il mancato raggiungimento dei propri obiettivi in questo governo uscente, i Tories hanno violentemente ridimensionato i propri target di riduzione della migrazione netta; lo Ukip, cui ormai manca solo d’addebitare agli immigrati anche il declino della nazionale di cricket, propone un sistema a punti mutuato dall’accogliente Australia: vuole bloccare per cinque anni l’afflusso di lavoratori non qualificati, imporre un tetto di 50.000 ingressi di lavoratori qualificati l’anno e un’attesa di 5 anni ai nuovi arrivati prima che possano richiedere i sussidi sociali, norma quest’ultima presente, anche se in modo più lieve, sia nel programma laburista che in quello conservatore.
Resta il fatto che senza il buco dell’immigrazione non si dà la ciambella dell’attuale deriva neoliberista targata Tory Lib-Dem. Fatto non sempre facile da giustificare alla «pancia del Paese», che sempre questa ciambella deve digerire. Gli piaccia o no.
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