Nell’universo variegato di André Gil Mata
Berlinale 68 Al Forum «The Tree» del giovane regista portoghese. Produzione bosniaca, tra gotico e fantastico ma con i toni propri del cinema lusitano di Costa e di Monteiro
Berlinale 68 Al Forum «The Tree» del giovane regista portoghese. Produzione bosniaca, tra gotico e fantastico ma con i toni propri del cinema lusitano di Costa e di Monteiro
Ogni giorno, il Forum della Berlinale presenta da cinque a sei film. Una parte del piacere di andarvi sta proprio in questa sua esuberanza. Ci si accomoda nelle sue sale al mattino e non se ne esce più. Un tempo quest’ozio voluttuoso era moltiplicato dalla diversità delle opere. Ora, da qualche edizione a questa parte, complice l’esilio, nell’Expanded, dell’arte visiva, la sensazione è che il Forum si sia uniformato. Our House di Yui Kiyohara e La Cama di Monica Lairana sono film molto diversi. La casa del giapponese è surreale e abitata da esseri che interagiscono attraverso universi paralleli. «Il letto» dell’argentina ha i piedi ben piantati per terra. Uno è riuscito (La Cama), l’altro no. Ma in ultima analisi i due registi; come tanti altri visti qui, sembrano condividere la stessa idea di che cosa sia il cinema. Con qualche eccezione. The Tree per esempio. Si tratta della produzione bosniaca di un giovane regista portoghese: André Gil Mata. Con le prime immagini entriamo in un universo formale molto connotato. La fotografia è fortemente sottoesposta. Dalla sua notte digitale emergono luminescenze che evocano la pittura nordica, il gotico e il fantastico ma ricordano anche i toni propri del cinema lusitano di Costa e di Monteiro.
Da un vetro di una povera casa, un ragazzo contempla un villaggio immerso nella neve. Un vecchio ne attraversa le vie raccogliendo dei boccioni di vetro che trasporta in spalla legandoli ad un bastone di legno. Gil Mata segue il suo vecchio un boccione dopo l’altro, tra la neve, gli ansimi dell’uomo e delle esplosioni che riempiono la notte, come colpi di cecchino ai quali il vecchio non presta attenzione, per abitudine o per necessità. Il vecchio e il bambino, s’incontrano sulla riva di un fiume. L’incontro ha la violenza di una lotta tra autocoscienze, scontro che prepara e carica il lento fluire del film, la potente bellezza dell’effetto notte che dipinge la foresta di luci e fa scomparire il cielo in un mare d’olio. Potenza delle immagini che rispecchiano la nuda vita. Tutto il film trasuda la scuola (etica più ancora che estetica) di Bela Tarr, a cui Gil Mata appartiene con maniera ma anche con genio.
L’anno passato avevamo scritto della Woche der Kritik. Quest’anno, la novità di questo controfestival underground è la pubblicazione di un libro con delle riflessioni teoriche sui film selezionati e soprattutto sui temi delle serate (uno sforzo lodevole è fatto per pensare il ruolo attuale dei festival). Per il resto, la formula è la stessa: in competizione sul terreno del Forum, la Woche scommette su un numero ristretto di film e sul piacere perverso di un dibattito dopo il programma (con gli autori e degli invitati). Il migliore visto fin qui è canadese francofono.
Si intitola Waiting for April, ed è un film che sembra figlio di tutti e di nessuno. Girato in regime d’autarchia finanziaria, comincia come una sorta di commedia surrealista, presentando uno ad uno i personaggi del film. C’è una detective, un poeta con una mano da scimmia, un uomo che puzza e una parrucchiera per sole donne di colore. Accanto a questi tipi, come in un film di Hitchcock, c’è un oggetto di cui si parla in continuazione e che serve solo a distrarre lo spettatore. In questo caso è un osso che canta. Il regista Olivier Godin ha fatto un film al tempo stesso modesto e ambizioso. Modesto perché sembra volersi solo divertire a smontare le attese del pubblico. La sua sceneggiatura è un capolavoro di acrobazie linguistiche che riposano in gran parte sulla ricchezza idiomatica del francese parlato dai canadesi.
Ambizioso perché è proprio dentro questo gioco semiserio e triviale con il linguaggio che il film annoda un rapporto immediato e spontaneo con la cultura orale. Come fossimo nelle Mille e una notte di Gomes, Olivier Godan fa cantare uccelli e uomini. Fa riemergere con semplicità tradizioni medievali di cavalieri sfruttatori, mamme avide e fanciulle oneste. Storie della saggezza popolare che tolte alla retorica morta e sciovinista dell’identità culturale diventano vivi inni di resistenza. E della potenza della cultura orale torneremo presto a parlare, perché il film (magnifico) di Lav Diaz si esprime tutto per canzoni che da ieri sera occupano le orecchie e i cuori di tutta la Berlinale.
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