Nell’orrore della nostra storia del Novecento
Fotografia Europea Intervista con Carlo Valsecchi per il suo progetto «Bellum», fino al 31 luglio presso la Collezione Maramotti. «Quando lavoro ho la necessità quasi fisica di immergermi completamente in ciò che devo o voglio affrontare che sia l’industria, il paesaggio urbano, il racconto del passato»
Fotografia Europea Intervista con Carlo Valsecchi per il suo progetto «Bellum», fino al 31 luglio presso la Collezione Maramotti. «Quando lavoro ho la necessità quasi fisica di immergermi completamente in ciò che devo o voglio affrontare che sia l’industria, il paesaggio urbano, il racconto del passato»
Inizia con un’immagine quasi completamente nera (scattata a Cogollo del Cengio) – e si chiude con la scritta bianca in cui la parola «presente» si ripete più volte (un dettaglio del Sacrario Militare di Redipuglia) il progetto Bellum, commissionato a Carlo Valsecchi (Brescia 1965, vive e lavora a Milano) dalla Collezione Maramotti di Reggio Emilia che ospita la mostra (fino al 31 luglio) nell’ambito della XVII edizione di Fotografia Europea. Fotografie che evocano scenari della Grande Guerra, ponendo quesiti sul tempo, sulla natura, sul significato di umanità. Nel testo in catalogo (Silvana Editoriale) Yehuda Emmanuel Safran parla di un arazzo in cui l’autore avrebbe imbastito tempo e spazio: «siamo intrappolati nell’intreccio, rapiti dall’ineffabile».
Come si è sviluppato questo progetto durato tre anni, attraversato dalla negoziazione della memoria declinata in maniera soggettiva?
In tutti i miei progetti ho la necessità quasi fisica di immergermi completamene in ciò che devo o voglio affrontare che sia l’industria, il paesaggio urbano, la storia. Devo capire cosa accade o è accaduto.
In questo caso mi sono immerso nell’orrore della nostra storia del Novecento fino alla Repubblica di Weimar. Ho riletto tantissimi libri – anche Cuore di Tenebra di Conrad, un libro meraviglioso che leggo almeno una volta l’anno – e, allo stesso tempo, ne ho scoperti altri come Il fuoco di Henri Barbusse. Ho rivisto anche tutta la cinematografia che già conoscevo scoprendo Torneranno i prati (2014), l’ultimo film di Ermanno Olmi. La fase successiva è stata quella di visitare quei luoghi terrificanti. I cimiteri sono tra i luoghi che mi sono rimasti più impressi – anche perché sono padre di un figlio di 8 anni e mezzo – con le date di nascita e morte di tutti quei ragazzi giovanissimi, però malgrado ne abbia visitati moltissimi non si vedono né in mostra, né nel libro.
Per entrare nella modernità ci siamo annientati: per la prima volta nella storia umana veniva provata, collaudata e messa in produzione qualsiasi idea che potesse uccidere più persone.
Dopo quest’immersione ho preso le distanze dal progetto per sentirmi libero di fare quello che volevo, cioè spostare, modificare, trasformare. Non faccio e non ho mai fatto un lavoro narrativo. Non ne sono capace, come non ho mai fatto documentazione, devo sempre entrare nel lavoro e trasformare seguendo il rapporto luce-spazio-tempo. È importante anche che ci sia quella relazione che contiene una curiosità e un’attenzione al confine, sia dentro di noi che all’esterno. Ho lavorato in stagioni diverse, non solo in inverno, anche all’inizio dell’autunno e della primavera.
Man mano che mi si chiariva sempre di più ciò che volevo fare, costruivo una sorta di storyboard. Scrivere, creando delle cartelle con dei fogli con riferimenti che non sono molto ordinati, fa parte del processo. All’interno di tutto questo lavoro di ricerca, comprensione e interesse – attraverso la storia si capisce il presente e si può intuire il futuro – ho deciso che volevo essere il più universale possibile. Mi interessava parlare di guerra cogliendo, tra le infinite possibili linee rosse, quella del fenomeno che per me è ciò che emerge con più forza. Quell’attimo in cui, quando si è in una situazione tragica e pericolosa, il tempo non esiste più. Sei sospeso, tutto è indeterminato, non vedi, non sai. Sei cieco.
Dal punto di vista tecnico il fatto che nella stampa si veda il bordo del negativo è un modo per affermare che fotografi in analogico?
No. Ho sempre usato il bordo. È il mio confine, la mia finestra. Non posso vedere cosa c’è oltre. Mi muovo all’interno di questo confine, quindi lo dichiaro semplicemente.
In «Bellum» l’immagine più riconoscibile, rispetto alle altre evocazioni o suggestioni è quella dell’interno del set di Olmi sull’altopiano di Asiago…
Sì, sono delle metafore, delle immagini che cercano di avvicinarsi all’idea del fenomeno. Un fatto importante di questo progetto è stato l’incontro con Filippo Menegatti che non è semplicemente una guida alpina, anche un uomo colto e uno storico della prima guerra mondiale e non solo.
L’ho conosciuto quando ho iniziato a muovermi per la richiesta dei permessi, perché lavorando con il banco ottico ho delle valigie molto pesanti e in condizioni non facili sarebbe stato necessario avere i permessi per avvicinarsi il più possibile con l’automobile ai luoghi. Filippo ha accettato di entrare nel progetto e durante i sopralluoghi mi ha portato in questa trincea dove Olmi ha girato le scene d’interno di Torneranno i prati. La prima volta la vidi in un giorno in cui diluviava.
Rimasi colpito. La ricostruzione, come si può vedere, è fatta benissimo. Mi interessava questa ulteriore ambiguità della finzione all’interno della ricerca del fenomeno, ma anche di mettere insieme la tempesta Vaia, che nell’ottobre 2018 si è abbattuta nelle stesse aree in cui si sono svolte le battaglie, con la prima guerra mondiale, una guerra di posizione uomo contro uomo in montagna. Oltre ad essere un luogo fantastico, la trincea era funzionale a ciò che cercavo e volevo ottenere: la sospensione, il non vedere attraverso il buio o l’estrema luce.
Anche la penultima immagine è della trincea di Olmi, ma stavolta è immersa totalmente in una tempesta di neve. Anche noi lo eravamo! Non puoi capire come sia stato complicato con il banco ottico, però è stato anche molto bello. Nella scena finale del film, l’ufficiale medico di quell’avamposto sperduto si gira, guarda in macchina e dice «finirà la guerra e torneranno i prati». È proprio così, una sintesi meravigliosa. È drammatico ma noi oggi andiamo in vacanza in quei posti.
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