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Nell’orbita del Perigeo

Nell’orbita del PerigeoIl Perigeo a Toronto negli anni Settanta

Intervista/Un incontro con Giovanni Tommaso e Claudio Fasoli La band jazz rock italiana torna insieme dopo 40 anni per un solo concerto, il 23 a Firenze

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 20 luglio 2019

In quel geniale testo sociologico che è Retromania, Simon Reynolds mette in guardia dalla «dittatura della nostalgia» e si chiede se la musica ha smesso di evolversi e perché. Non è certo la preoccupazione dei componenti del Perigeo, che hanno continuato a sperimentare, cercare, creare con grande prolificità. Abbiamo incontrato Giovanni Tommaso e Claudio Fasoli in occasione della preparazione del prossimo concerto di Firenze, martedì 23 in piazza Ss. Annunziata, per farci raccontare la storia del gruppo e questa nuova avventura.
Giovanni Tommaso, oltre a essere l’ideatore dei Perigeo, è contrabbassista, compositore, direttore d’orchestra. Ha collaborato con Sonny Rollins, Dexter Gordon, Gil Evans, Max Roach, Chet Baker, Kenny Clarke, John Lewis, Steve Lacy e molti altri. Ha scritto colonne sonore per cinema e televisione e dirige i seminari di Umbria Jazz Clinics in gemellaggio con il Berklee College of Music. In ambito pop, come produttore e come arrangiatore, ha collaborato con Dalla, Cocciante, Mina, Morandi, Rino Gaetano, Ivan Graziani. «È uno dei musicisti che maggiormente hanno contribuito allo sviluppo del jazz italiano. Ha vissuto i momenti e i luoghi che hanno contrassegnato la parabola ascendente del nostro jazz», sostengono i critici Gaspare Pasini e Maurizio Franco.

Giovanni Tommaso (foto di Emanuele Vergari)

Giovanni, partiamo dall’oggi: le notevoli carriere solistiche dei componenti del gruppo confermano – oltre che il tuo fiuto nell’individuazione dei musicisti – la validità della ricerca del Perigeo. Quali sono le caratteristiche del gruppo, le peculiarità che lo contraddistinguono da altre esperienze in ambito jazz rock?
Come gruppo, avevamo intuito tre strade interessanti, che abbiamo cercato di approfondire nel tempo. La prima era un linguaggio jazzistico, improvvisativo, realizzato con un suono «elettrico» di sapore rock, che ci serviva come una sorta di passaporto per parlare con i giovani di allora. La seconda era una ricerca compositiva, rivolta alle origini stilistiche di ognuno di noi. La terza era una sperimentazione di tipo timbrico effettistico, libera, cui davamo vita negli intermezzi fra le varie composizioni. Inoltre, da un punto di vista compositivo c’è sempre stato un interesse per la melodia, con alcune ballad senza un groove ritmico specifico. Questa era un’apertura di una strada nuova, originale. Il gioco di melodie «a cappella» di voce e sax in un pezzo come Respiro a distanza di tanti anni lo trovo molto originale.
Vi dava fastidio essere definiti i Weather Report italiani?
Un po’ sì, anche perché siamo nati nello stesso anno e quando abbiamo iniziato non conoscevamo la loro musica. Però, avendoci suonato fianco a fianco, posso dire che era una band pazzesca. Musicisti stratosferici e un sound dal vivo che era ancora migliore di quello su disco. Massima stima.
Negli anni Settanta il Perigeo ebbe – nonostante le ritrosie di alcuni conservatori – riconoscimenti internazionali di critica, con articoli importanti, e di pubblico, che vi seguiva numerosissimo. Si dice che Zawinul chiese ai manager di non farvi suonare più come spalla dei Weather Report perché in alcuni concerti riscuoteste troppo successo.
Risponde tutto a verità! Te lo posso assicurare perché Zawinul – con cui sono rimasto sempre grande amico – nell’occasione di un tour europeo, in maniera molto confidenziale, chiese direttamente a me di comprendere questa richiesta. Il contratto non lo permetteva, ma prima del concerto all’Olympia di Parigi il loro manager riuscì a trovare un cavillo nel regolamento del teatro e ci fu impedito di suonare. Con i Soft Machine, durante una tournée italiana, il loro manager cercò di ridimensionare la nostra partecipazione, senza riuscirci. Non facevamo il gruppo «di spalla» ma eravamo co-protagonisti, fu un successo incredibile. Alcuni critici scrissero che noi «facemmo del male» al gruppo inglese, che dal confronto usciva bastonato. Insomma, che si creda o meno ai giornali di allora, noi suonavamo veramente con grande forza e originalità.
Il sassofonista e compositore Claudio Fasoli è, come ha scritto Maurizio Franco, «la voce lirica del quintetto, ma oltre all’aspetto solistico, il suo apporto è ancor più prezioso nel completare la tessitura timbrica e poliritmica che caratterizza, ad alto livello, la proposta del gruppo». Dopo la fine del Perigeo ha portato avanti una incessante ricerca musicale, collaborando tra gli altri con Lee Konitz, Mick Goodrick, Manfred Schoof, Kenny Wheeler, Mario Brunello. Così lo definisce il Dizionario del Jazz di Comolli, Clergeat e Carles: “Uno dei più lungimiranti e perspicaci compositori in circolazione, oltre che solista dallo stile personalissimo e riconoscibile». Premiato nel 2018 come Musicista dell’anno, il suo libro Inner Sounds (Agenzia X Edizioni) è giunto alla seconda edizione. I suoi cd più recenti sono Haiku Time e Selfie. Nel 2018 è uscito il film Claudio Fasoli’s Innersounds, del regista Angelo Poli, premiato in vari festival internazionali.

Claudio Fasoli (foto di Mariagrazia Giove)

Claudio, quali sono le originalità dei Perigeo?
Premetto che Giovanni, Franco D’Andrea e Bruno Biriaco erano all’epoca, e lo sono tutt’oggi, dei musicisti top a livello internazionale, che costituirono una delle ritmiche più forti al mondo, lo dico senza tema di smentita. Tony Sidney era giovanissimo all’epoca e poco conosciuto, ma portò un contributo importante e gli sviluppi posteriori della sua musica hanno confermato la cognizione rigorosa dello strumento. Sono felice di aver avuto la possibilità di prender parte a quella esaltante esperienza. La genialità compositiva di Giovanni, la sua grande intuizione nel fondere con il jazz non solo l’elettronica e le sonorità rock, ma anche un forte aspetto melodico mediterraneo erano la base su cui tutti innestavamo le nostre sensibilità. Sul piano timbrico l’originalità era data da un impasto sonoro che non era debitore di altri modelli, per esempio la chitarra elettrica abbinata al sassofono contralto e soprano erano veramente unici a quei tempi. E poi c’era questo altalenarsi tra contributi rock e i momenti di jazz assoluto, come quando io e Franco suonavamo Naima di Coltrane, a rivendicare le nostre radici.
Dopo il Perigeo la tua ricerca non tocca più il jazz rock…
Credo che l’essenza del jazz risieda proprio nell’essere disponibili a esperienze espressive in contesti diversi, cioè affrontando il problema «dove e come» gestire un linguaggio in maniera espressiva e possibilmente innovativa secondo opportunità e sollecitazioni differenti. È un virus di libertà, che si è diffuso sulla terra, ibridando tutto ciò che ha trovato lungo la sua storia. È la vitalità che ci permetterà di riproporre in divenire le musiche del Perigeo.
Qual è il senso di una reunion a 40 anni di distanza dallo scioglimento del gruppo? Avete in programma altri concerti o dischi?
Abbiamo avuto molte richieste nel corso degli anni, mai abbastanza serie, se non nell’occasione di Umbria Jazz nel 1993 e di Firenze nel 2008. Anche per il concerto del 23 luglio prossimo, a Firenze, gli organizzatori ci hanno garantito la massima serietà. Le ragioni invece sono queste: i nostri dischi hanno continuato a essere venduti in ogni parte del mondo, i brani su youtube hanno un numero di visualizzazioni altissimo e spesso ci arrivano apprezzamenti che sottolineano l’attualità di quella musica. Abbiamo deciso che saranno delle interpretazioni non filologiche ma vivificate dal percorso artistico che ognuno ha evoluto negli anni. C’è grandissimo entusiasmo e non vediamo l’ora di metterci alla prova. E se alla prova verificheremo che si possono percorrere strade nuove, nulla osta che si verifichi le possibilità di nuovi dischi o altri concerti.

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