«Sono nato a Roma, in via del Tritone 197. A quell’indirizzo c’era lo Studio Luxardo, un importante studio fotografico dove lavorava mia madre Elda. Sono nato sotto i riflettori, dunque. Mio padre, Salvatore, era figlio di un ferroviere. Lavorava all’Unitalia, un ente del Ministero dello Spettacolo che faceva propaganda per il cinema italiano nel mondo. Dell’infanzia ho pochi e confusi lampi di memoria». Si torna all’inizio, non del suo cinema, ma della vita familiare, al termine della mostra Dario Argento – The Exibit (inaugurata ieri mattina alla Mole Antonelliana di Torino, organizzata dal Museo Nazionale del Cinema, curata da Domenico De Gaetano e Marcello Garofalo e in programma fino al 16 gennaio 2023). Il pannello che contiene la dichiarazione riportata si chiama «Mi chiamo Dario Argento» e quel titolo potrebbe essere anche quello dell’intera esposizione (per la quale invece ne è stato scelto uno inglese, come troppo spesso di moda nella comunicazione italiana).

Pupazzo meccanico di «Profondo rosso» (Fam. Rambaldi)

PER L’OCCASIONE, Argento, 82 anni il prossimo 7 settembre, è tornato a Torino, città che ama, dove ha girato diversi film, «e nella quale mi piacerebbe vivere, mi trasferirei se non avessi la mia vita, le mie figlie, i parenti, a Roma, che non posso abbandonare», afferma. Ma i luoghi torinesi che ha filmato rimarranno nell’immaginario collettivo, uno per tutti: piazza Cln, set di alcune scene indimenticabili di Profondo rosso. «Sono affascinato dalle strade, dai palazzi, dalle piazze, dai teatri di Torino», spiega esprimendo emozione e tenerezza con lo sguardo e la voce mentre parla accompagnato dalle musiche dei suoi film che aleggiano nella suggestiva struttura della Mole. Sulle rampe sono disposti, in ordine cronologico, da L’uccello dalle piume di cristallo, con cui esordì dietro la macchina da presa nel 1970, a Occhiali neri, i tanti materiali che permettono di compiere un viaggio, da una parte aneddotico e dall’altra teorico, in una filmografia lunga oltre cinquant’anni e, a ogni titolo, in grado di stupire, di aprire vortici di senso, vertigini, accecamenti (quanto è imprescindibile la presenza dell’occhio nel cinema di Argento) al fine di produrre nuove «visioni» e slittamenti percettivi. Come se l’opera di Argento fosse una continua, conturbante e sensoriale, «sindrome di Stendhal», un «salto nel vuoto» dentro un quadro-inquadratura che ne accoglie infinite altre.
Una mostra che contiene 44 oggetti di scena, 12 manifesti e locandine originali, bozzetti scenografici, creature meccaniche dell’artista-artigiano degli effetti speciali Sergio Stivaletti, fotografie inedite, sceneggiature con appunti manoscritti, dischi di colonne sonore, libri dedicati al regista. Che, a margine dell’inaugurazione, ci dice: «Non ho collaborato alla selezione dei materiali, non sono intervenuto nel processo di allestimento. Ho visto la mostra l’altro ieri sera, per la prima volta, e mi sono chiesto se me la sono meritata. Si è trattato di qualcosa di inaspettato, c’è tutto il mio cinema, le immagini ma anche le cose che ho detto, che a volte avevo dimenticato, mi ha riportato indietro nei miei film e forse li ho capiti meglio».
Ad accogliere il visitatore, all’entrata della mostra, in piedi, come fosse piantato nel pavimento, c’è il coltello grondante sangue di Profondo rosso (ma potrebbe appartenere a tanti altri film, essendo un oggetto ricorrente che diventa ulteriore segno di riconoscimento della poetica argentiana). E il coltello è ben presente nell’immagine-manifesto della mostra. Dalla lama-specchio di un coltello in verticale appare il volto, tinto di rosso su fondo nero, di un giovane Dario Argento.

Bozzetto originale «Il gatto a nove code» (Proprietà M. Strada)

LO SI PUÒ interpretare come un occhio allungato, ed ecco tornare in primo piano, questa volta con valore simbolico, quell’organo così a fondo esplorato, torturato, sezionato, esaminato, penetrato nel corso dei film. Perché il cinema di Argento, come riporta una didascalia, si offre alla «ingannevolezza dello sguardo», ogni sua immagine emana tale sensazione perpetrando una lucida «mise en abyme» in un cinema dove la rappresentazione dello spazio è indagata con geometrica precisione. «Lo spazio è fondamentale – dice ancora Argento – Il mio lavoro deve certo molto alla pittura, ma anche all’architettura. Lo spazio è l’involucro dove tutto accade, dove i personaggi amano, odiano, uccidono, si muovono, entrano in contatto e in contrasto. Per me quanto Antonioni ha fatto sullo spazio è stato fonte d’ispirazione».
Uno spazio dove diffondere paura e tensione, dove introdursi per perlustrare luoghi colorandoli di buio, di nero oppure, a contrasto, di bianco (ancora oggi sono di riferimento gli spazi bianchi, le vetrate, gli interni de L’uccello dalle piume di cristallo, ma Argento ricorda anche Tenebre, «un film senza colori, quasi in bianconero»). E che trova in Suspiria un caposaldo. Proprio questo film, che compie 45 anni, ha concluso la giornata di ieri, presentato nella versione restaurata e introdotto da Argento. Primo appuntamento con la retrospettiva dei film del maestro dell’horror, la prima parte è in cartellone al cinema Massimo fino al prossimo 24 aprile.

E NON SOLO Immagini in movimento. Due volumi approfondiscono con testi e fotografie un cinema che a ogni sua ri-visione produce scoperte: Dario Argento non è un semplice catalogo della mostra, ma un corposo excursus tra saggi e testimonianze; Dario Argento – Due o tre cose che sappiamo di lui, con testi anche di George A. Romero e John Carpenter, sarà presentato il 10 aprile dall’Associazione Museo Nazionale del Cinema. Il regista riacquista così, con queste proposte, una visibilità necessaria (tra Dracula 3D e Occhiali neri sono trascorsi dieci anni) in un periodo che lo ha visto anche recitare (era già accaduto, ma mai nel ruolo principale) in Vortex di Gaspar Noè, interpretando un anziano critico cinematografico avviato, dopo la scomparsa della moglie, verso la morte. Una sfida ulteriore per un autore il cui cinema ha la potenza esplosiva del muto e per il quale «l’importante è come si mette in scena una storia, non la storia in sé».