Fin da quando fece uscire Fires on the Plain nel 2014, Shin’ya Tsukamoto ha intrapreso quella che si può ormai definire, a dieci anni di distanza, una nuova fase della sua carriera. Un periodo nel quale l’autore giapponese ha dedicato i suoi sforzi, non solo di regista ma anche quelli distributivi, ad una trilogia dedicata alla guerra, o più in generale all’atto di uccidere il prossimo e alle sue conseguenze, continuata con Killing nel 2018 e conclusa, per ora, con Shadow of Fire, film presentato a Venezia lo scorso anno e ora nelle sale dell’arcipelago.
Il cinema Eurospace a Tokyo ha fatto coincidere l’uscita dell’ultimo film di Tsukamoto con una grande retrospettiva dedicata all’autore giapponese, ancora in corso in questi giorni. Da Tetsuo a Bullet Ballet e da A Snake of June a Kotoko, il programma permette di rivisitare, o far conoscere per la prima volta ai più fortunati, l’opera di uno degli autori giapponesi più importanti degli ultimi quattro decenni. Fra i lavori presentati in questa retrospettiva, ci sembra interessante in questa sede porre l’attenzione su uno dei film forse meno conosciuti dal pubblico generalista italiano, ma in qualche modo opera spartiacque per la sua carriera, Haze. Il film è una sorta di incubo claustrofobico, dove il protagonista è intrappolato in uno spazio ristrettissimo fra due mura e in un cunicolo che si restringe ad ogni risveglio

IL FILM film nasce nel 2005 come mediometraggio di 25 minuti, poi trasformato in 49 minuti nella versione attuale, commissionato dal Jeonju International Film Festival in Corea del Sud e realizzato, secondo le direttive del festival, interamente in digitale. Proprio qui sta il valore aggiunto di Haze, si tratta infatti del primo lavoro diretto da Tsukamoto interamente in digitale, per essere precisi un digitale a bassa risoluzione DV, come quello, per intenderci, usato da David Lynch per Inland Empire. L’uso della videocamera digitale, che in seguito Tsukamoto avrebbe adottato definitivamente da Kotoko (2011) in poi, un digitale completamente diverso però e ad alta definizione, comincia proprio da Haze. Il film è una sorta di incubo claustrofobico, o un beniano Hermitage virato à la Tsukamoto, dove un uomo, Tsukamoto stesso, è intrappolato in uno spazio ristrettissimo fra due mura e in un cunicolo che si restringe ad ogni risveglio. Formalmente si tratta di una sorta di autoritratto cubista del protagonista, occhi, denti e piedi, realizzato attraverso primissimi piani del regista e delle parti del suo corpo. Queste inquadrature, rese possibili anche grazie alla piccola videocamera digitale, sono alternate con l’oscurità del luogo e provocano un senso di stritolamento da parte della materia inorganica verso il corpo di carne, una delle tematiche più affascinanti di tutta l’opera del regista.

QUESTO CLAUSTROFOBICO senso di fine imminente si esplicita in scene battenti, realizzate grazie al montaggio frenetico a cui Tsukamoto ci ha abituato, ma anche alle musiche industrial del compianto Ishikawa Chu. Allo stesso tempo però, il montaggio rimanda ad un corpo che forma con il muro, le tubature, il filo spinato e gli aculei d’acciaio anche una sorta di assemblaggio organico-inorganico e di vita-morte. Proprio l’elemento di morte viene a galla più direttamente nella seconda parte del lavoro, quando il protagonista incontra una donna, fra un parossistico mare di arti e membra mozzate. Diviene più chiaro, anche se non viene mai esplicitato, che forse il luogo in cui l’uomo e la donna si trovano intrappolati è una sorta di inferno in cui sono stati gettati a causa della violenza da loro perpetrata. Si trova qui allora, in fase embrionale, il nodo etico della violenza e dei suoi effetti sull’altro che Tsukamoto esplorerà più a fondo nella già citata trilogia.

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