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Nell’era digitale, serve un nuovo compromesso tra Stato e mercato

Nell’era digitale, serve un nuovo compromesso tra Stato e mercatoUn’opera di Nick Gentry

Lavoro Il capitalismo digitale sta tagliando il ramo sul quale è seduto. È destinato al fallimento per la sovraproduzione e la sotto-occupazione che esso stesso alimenta

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 26 gennaio 2018

La politica è spaesata, balbetta discorsi in cui non crede; compie salti fideistici in un qualcosa che in futuro avverrà, ma non si sa che cosa sia e perché dovrebbe avvenire. Il tatcheriano «non c’è altra soluzione» blocca le menti, e rende spendibili evidenti sciocchezze.

Come la prospettiva di superare la disoccupazione e il precariato di intere generazioni con le start-up o similia. La mancanza di verità produce un contesto malato in cui hanno libero corso le menzogne.

OGGI PERÒ SI INTRAVEDE qualcosa: una trasformazione molecolare, direbbe Gramsci. La critica alle disuguaglianze, moralmente inaccettabili ed economicamente dannose (Fmi), ha scavato, e ha mostrato che il lavoro manca non per qualche strozzatura del sistema, ma semplicemente perché non è più necessario.

Anche chi non ha letto il Rapporto McKinsey, che stima il 49% degli attuali lavori sostituibili dai robot, vede i capannoni abbandonati, le filiali delle banche chiuse, i negozi sfitti. Tutti leggono sui giornali che Deutsche Bank – dopo i 9.000 esuberi già richiesti nel 2015 – vuole dimezzare i 97.000 dipendenti attuali; che Siemens annuncia 6000 esuberi; che Intesa-San Paolo sta licenziando 9.000 dipendenti; che Unicredit sta chiudendo 883 filiali (con 6.500 licenziamenti entro il 2019, oltre i 3.900 già concordati), che Telecom sta licenziando 6.500 dipendenti, con ristrutturazioni variamente incentivate che ne coinvolgeranno più di 10.000; che i supermercati sono in crisi per le vendite on-line (i grandi magazzini Macy’s taglieranno, negli Usa, 5.000 posti di lavoro), che i camion che si guideranno senza conducente lasceranno disoccupate centinaia di migliaia di persone.

Tutti sanno che questo fenomeno è in atto da anni (tra il 1990 e il 2015 Poste italiane è passata da 237.00 a 144.000 dipendenti; FF.SS da 186.000 a 65.500; Telecom da 127.000 a 52.500; Finmeccanica da 58.500 a 29.500) eppure si è continuato a confidare in una mitica ripresa che avrebbe rimesso le cose a posto. E invece, oggi, uno studio dell’Institute for Public Policy Research, stima che, nel Regno Unito, il 44% dei lavori potrebbero essere automatizzati, il che corrisponde a più di 13.7 milioni di persone che complessivamente guadagnano circa 290 miliardi di sterline.

I MOTIVI DI QUESTA situazione sono di una semplicità lapalissiana. Ma occultati da una rete armatissima di depistaggi, di complicazioni e di astruserie di cui la finzeconomia è maestra. Si possono così riassumere. Il capitalismo digitale (le macchine che dialogano con le macchine) permette una illimitata produzione di merci. Ma contemporaneamente produce eccedenza di lavoro. La conseguente disoccupazione genera una riduzione della massa salariale: per il minor numero degli occupati e per l’influenza che l’esercito di riserva ha sui salari degli occupati.

Ciò causa una riduzione della domanda di merci. Non solo. Il risparmio di lavoro produce una riduzione della raccolta previdenziale e del gettito fiscale. Conseguenza: meno risorse per pensioni e servizi; e soprattutto per investimenti pubblici. Il che, di nuovo, produce minore domanda.

IL CAPITALISMO DIGITALE sta tagliando il ramo sul quale è seduto. E’ destinato al fallimento per la sovraproduzione e la sotto-occupazione che esso stesso alimenta. Si aprono due strade.

Vagheggiare che il capitalismo digitale produrrà la richiesta di nuovo lavoro, che sostituirà quello perso. Ma quali evidenze sostengono questa tesi? Ad oggi è una infondata capriola nell’utopia. Che ha conseguenze ben concrete e criminali: impone che – in attesa del miracolo – gli espulsi, gli scartati, gli inutili vengano tenuti chiusi in una riserva indiana, nella condizione di precari, sottopagati, inattivi, vagabondi. Il che comporta che venga lucidamente coltivata la loro disperazione e la loro apatia: non solo con l’alienante cultura dell’evasione, ma rimanendo inerti davanti al loro abbrutimento morale, intellettuale e fisico. Uno degli aspetti più tragici della crisi sociale degli Usa è il crollo nell’aspettativa di vita dei maschi adulti, bianchi, privi di educazione, a causa dell’abuso di oppioidi. L’orizzonte sembra essere quello della società descritta da Carpenter in 1997: Fuga da New York (e, poi, in Fuga da los Angeles). Le capitali del mondo circondate da mura altissime e trasformate in penitenziari dove gli “scartati” vivono nell’anarchia assoluta.

LA SECONDA STRADA è quella di creare uno Stato in grado di socializzare la ricchezza prodotta dalle macchine e redistribuirla sotto forma di lavoro, prezioso per la società e dignitoso per chi lo compie; e che sostenga la stessa domanda dei beni prodotti. Uno Stato fortissimo, in grado di utilizzare la tassazione, e contestualmente il più largo possibile sistema di incentivi, per raggiungere lo scopo.

Oggi sembra fuori dall’immaginabile. Ma allo scoppio della crisi del 1929, negli Stati uniti l’aliquota massima era del 24%, già nel 1932 era del 63%. Con Roosevelt ha toccato il 94%. Ancora durante la presidenza Eisenhower (1953-1961) superava il 90%.
Socializzare la ricchezza prodotta: esattamente il contrario di quanto si sta facendo ora. Ma è l’unica strada per stabilire un equilibrio tra produzione e consumo ed evitare catastrofi sociali.

È un obiettivo generale: dei lavoratori, ma anche dei capitalisti. E dunque un compromesso razionale deve essere possibile. Non è più vero che non c’è altra soluzione. La necessità thatcheriana è finita.

IL NUOVO COMPROMESSO sociale ruota attorno ad un riorientamento fiscale che sposti il prelievo dai redditi di lavoro all’intero valore aggiunto (V. Visco), così da socializzare la ricchezza prodotta dalle macchine per creare la piena occupazione e, con essa, il sostegno della domanda. Ma questo potrebbe non essere sufficiente perché va compensata anche la robotizzazione passata, che ha prodotto la attuale disoccupazione e precarizzazione. A tal fine non si dovrà temere di progettare più tasse sulla ricchezza (finanziaria e immobiliare, oltre un ragionevole limite), sull’uso di materie prime non rinnovabili e su posizioni di rendita (i grandi del web …).

TUTTO CIÒ NON C’ENTRA nulla con il luddismo. L’automazione, il capitalismo digitale, andrà avanti per la sua strada, sostenuto dallo Stato innovatore. Ma questo stesso Stato dovrà fondarsi su un nuovo compromesso – il blocco sociale post-liberista – e dovrà avocare a sé il compito razionalmente imprescindibile di “far esistere” il lavoro necessario alla società. Sono due strade diverse, destinate però ad incontrarsi. Stato e mercato sono oggi un garbuglio corrotto e inefficiente. Lo Stato deve tagliare il nodo gordiano, e fare la sua parte.

Molte strategie andranno combinate per raggiungere quel duplice obiettivo etico-politico ed economico: ma tutte si riducono alla capacità di organizzare da parte della pubblica amministrazione (e dei privati che vorranno collaborare, fiscalmente agevolati) politiche di investimento che generino quel lavoro retribuito che il mercato, spontaneamente, non riesce né a richiedere né a retribuire.

Si potrebbe dire che l’umanità si ritrova in condizioni simili a quelle in cui trovava ai tempi dei grandi imperi “fluviali”. Nilo, Tigri, Eufrate, erano la vita. Ma la rete artificiale dei canali che distribuivano l’acqua nel deserto erano lo strumento politico che permetteva di fruire di quella vita. Oggi il Nilo, il Tigri, l’Eufrate sono le macchine. Si tratta di costruire i canali che consentano a tutti di godere della loro esistenza.

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