Alias Domenica

Nell’ebraismo il riscatto dell’umanità

Filosofi Rifiutando la politica, il potere del denaro e quello della diplomazia Martin Buber scrive che il sionismo va preparato anzitutto nell’anima

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 1 dicembre 2013

Nel gennaio del 1901 si stampa a Berlino il primo fascicolo di una rivista dalle grandi ambizioni: si chiama «Ost und West» ed è espressione di quell’ebraismo culturale che aveva chiamato a raccolta i rabdomanti della spiritualità, promettendo ai correligionari di lingua tedesca un vibrante senso di appartenenza e un rinnovamento epocale degli spiriti. Rifiutate assimilazione ed amnesie, respinto il pragmatismo politico di Herzl «che non aveva capito nulla della materia emotiva ebraica» – scrive Martin Buber nel saggio dedicato al fondatore del sionismo moderno nel 1904 – i curatori invitano a ritrovare a Oriente, nello specchio dell’Ostjudentum, il senso di una vita ebraica ricca di tradizioni, di arte e di speranze.

Il preambolo è suggestivo: «Dal groviglio di tendenze estranee che, nel secolo appena trascorso, hanno invaso l’ebraismo si staglia con sempre maggiore evidenza un elemento troppo a lungo trascurato, la sfumatura culturale specificamente ebraica rivendicando il suo diritto allo sviluppo. L’antica vita ebraica, che è stata a lungo disprezzata e avvilita, si alza, si avvolge nelle vesti del nuovo tempo e sale con passo sicuro i gradini che portano al trono».

A Martin Buber, viene assegnato il compito di definire la costellazione teorica e gli obiettivi di «Ost und West». Scrive allora Juedische Renaissance, «Rinascimento ebraico», un saggio che evoca la Rinascenza italiana, dopo l’«oscurità» del Medioevo, e celebra lo sviluppo armonioso «dell’uomo intero», insieme all’amore per la cultura e al «senso delle cose a venire». La suggestione, che giunge a Buber da Burckhardt e da alcune pagine del nordico Langbehn, è ricca di calchi nietzscheani e devota a quella religione della vita che promette di restituire allo spirito ciò che il positivismo aveva ridotto a operazione contabile e mercantile.

Con passione annuncia la «redenzione interiore» dell’ebraismo, destinato a rinascere nell’arte e nella bellezza. «Spazzerà via dall’anima del nostro popolo – scrive – la polvere e le ragnatele del ghetto interiore e permetterà all’ebreo di guardare nel cuore della natura, gli insegnerà a … misurare la sua individualità su quella di tutti gli esseri». La palingenesi culturale, morale e religiosa si innesta sulla liquidazione senza appello dell’ebraismo diasporico, una realtà statica e malata, «non produttiva, non europea, disumana» – afferma nel 1902 – al quale oppone una immagine vaga quanto idealizzabile dell’ebraismo costruita con il vocabolario dell’irrazionalismo del tempo.

Profetico ed evocativo quel saggio ha debiti sorprendenti, non solo con Nietzsche, incontrastato maestro, ma anche con la subcultura socialdemocratica dell’età guglielmina: si trovano nelle pieghe del testo tracce del dibattito tra Bernstein e Kautsky sull’importanza dell’«elemento idealistico» nelle rivoluzioni, echeggia l’appello di Eduard David alla «costruzione spirituale della giovane generazione»; tornano, e alla lettera, gli inviti dei revisionisti allo «spiegamento della spiritualità operaia», l’impegno a vivere una «vita intera» lì dove c’era una «vita a metà», mentre si rifrangono speranze messianiche e idealizzazioni comunitarie. Filosofia della vita, neoromanticismo tardo-ottocentesco, prime suggestioni nietzscheane, forse lo Zeitgeist intrecciano i linguaggi eppure non è scontato l’avvicinamento tra proletari ed ebrei, né l’idea che anche costoro debbano soprattutto spezzare le loro catene e cancellare secoli di storia da paria inseguendo «silenziosi riti solari».

Herzl, l’avversario su cui Buber esercita una critica supponente, era riuscito a non essere né paria né parvenu: snob, ossessivo e visionario in un mondo di epigoni alla ricerca di forme ambigue, ritardate e sanguinolente di rigenerazione, aveva cercato di trasfigurare ghetto, frustrazione, miseria per tessere la narrazione di un mondo perfetto di cui gli ebrei, con la loro storia, la loro sofferenza e le molte abilità nutrite dall’esilio, sarebbero dovuti essere le avanguardie.Su questi temi si consumerà la rottura al V Congresso del 1901 tra sionismo culturale e sionismo politico – tra chi pensava che fosse sufficiente possedere una terra di sicurezza e di benessere per correligionari perseguitati e chi riteneva invece che il ritorno in Palestina rappresentasse solo un Endziel, l’atto conclusivo di un processo culturale e identitario che riuscisse a sdoganare come nazione, quello che era stato fino ad allora un popolo.

Negli anni, Buber influenzato da Ahad ha-‘Am, pseudonimo di Asher Zvì Ginsberg, precisa la genesi di questa Juedische Renaissance, la insegue nel Chassidismo con i suoi sentimenti e nella Haskalah con la sua ragione, la individua nell’arte ebraica contemporanea e nelle espressioni – spesso sfuggenti – della Volksseele, l’anima popolare che non va assolutamente cercata nelle istituzioni ufficiali e in una giurisdizione arida e soffocante. Buber fa così dell’idea rinascimentale un’arma efficace contro il dispotismo rabbinico, l’oppressione disumanizzante dell’utile e, inoltre, un argomento vincente nelle polemiche contro i molti che negavano ai ’concittadini di fede mosaica’ anche solo la possibilità di essere dei creativi.

Il compito del giorno rimane però il progetto dell’umanesimo sionista e la sua realizzazione in Palestina: «Quello che intendo per umanesimo è che la gioventù di Palestina venga condotta all’assimilazione nazionalistica dal sacro egoismo alla chaluziut nazionale: che venga educata allo storico compito umano del giudaismo come umanità inconcussa».

Il titolo di questo articolo (e di questo progetto) Juedische Renaissance dà il nome alla raccolta di testi su ebraismo e sionismo scritti da Buber tra il 1899 e il 1923: Rinascimento ebraico (Mondadori, pp. 470, euro 22,00) per la cura (e la traduzione) sapiente e affascinante di Andreina Lavagetto. I saggi (in parte inediti in Italia) accompagnano il lettore in un percorso ben calibrato che, ricco di eventi e riferimenti, occupa quasi cinque lustri della lunga vita del filosofo austriaco. Vanno dalla relazione di Buber al III congresso sionista, con le sue vocazioni minoritarie, all’esperienza di «Der Jude», influente rivista dell’ebraismo tedesco. Attraversano l’incontro con gli ebrei praghesi del Bar Kochba tra il 1909 e il 1911 che, dopo la scoperta del Chassidismo, rappresenta il punto più alto della teoresi ebraica di Buber; guardano alla Grande guerra, sognata e poi rifiutata; e giungono fino al 1923, anno in cui, conclusa l’esperienza redazionale e pubblicato Io e tu, Buber inizia a considerare i problemi politici nella prospettiva ben più articolata della filosofia del dialogo.

Molti in queste pagine i ripensamenti, le precisazioni le suggestioni e le questioni contingenti, ma costante l’obiettivo: rafforzare la consapevolezza della specificità spirituale e culturale ebraica perché sia possibile il riscatto e perché l’ebraismo possa contribuire alla rinascita dell’umanità tutta. In un discorso dell’immediato dopoguerra Sion e la gioventù indica tre obiettivi alle nuove generazioni: «Il primo elemento è la salvezza di una nazionalità … Il secondo, più alto, è la ricostruzione di una società corrotta, la realizzazione di principi più equi di vita comune. Il terzo, il più alto di tutti, è l’annuncio all’umanità di una vera salvezza, quando il rapporto con l’assoluto è tornato a incarnarsi nell’essere mortale». Il suo sionismo, un «risveglio che porta alla libertà», rifiuta la politica, il potere del denaro e della diplomazia; non vuole conquiste, né imposizioni, rifiuta la follia della guerra ma evoca entusiasmi, comunità, spiritualità perché – scrive – Sion non sorgerà nel mondo, se non la preparate nell’anima.

 

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