Come nella storia dell’arte, anche in quella dell’architettura che le è prossima, l’invisibilità della donna è un dato palese tenacemente radicato sia nel mondo accademico, sia nell’esercizio della professione, ambedue «dominate dagli uomini».

Molteplici indagini storiografiche, tuttavia, effettuate con la finalità di fare emergere il lavoro delle architette, ha contribuito a «scompaginare» una storia della modernità architettonica che, come ha evidenziato Oechslin, merita uno «sguardo nuovo e distaccato». Scrive Carmen Espegel, docente alla Escuela Técnica Superior de Arquitectura di Madrid, nel suo saggio Donne architetto nel Movimento Moderno (Christian Marinotti Edizioni, traduzione di Bruno Melotto, pp. 222, euro 26) che «le enciclopedie professionali e i cataloghi d’arte delle biblioteche specializzate raramente menzionano le donne architetto, nemmeno quando il loro prestigio è ben noto tra gli esperti della professione, e se le nominano, lo fanno come se fossero architetti maschi».

UNA VERITÀ che sembrerebbe un dato acquisito, ma che non lo è se si scorrono anche i più recenti manuali di storia dell’architettura alla ricerca delle personalità elencate dall’Espegel. In generale, la loro presenza è stata trattata con superficialità nonostante il loro contributo sia stato di notevole importanza per la definizione dello «stile» della modernità in architettura.

Occorre considerare, infatti, che solo nel secolo scorso si realizzò l’ingresso attivo delle donne in settori dove prima erano escluse, relegate nell’artigianato e nella domesticità. Come precisa l’autrice, è stato proprio «il passaggio della donna da oggetto a soggetto dell’industria uno dei frutti della modernità».

La prima parte del libro svolge un’efficace sintesi delle ragioni storiche, sociali, filosofiche e antropologiche che qualificano il rapporto della donna con l’architettura. L’incipit fissa già un punto fermo teorico stabilendo che «l’architettura è qualcosa di endogeno nella donna». L’immagine metaforica alla quale ricorre Espegel, così cara anche a Virginia Woolf, è quella della lumaca che porta con sé la casa costruita con la saliva nella forma elicoidale: la più resistente e accogliente.

DA QUESTI RIFERIMENTI archetipici si sviluppa l’articolata relazione tra la specificità femminile e i luoghi della casa: dallo spazio domestico rappresentato nella triade fuoco-casa-cucina, all’Existenzminimum dell’alloggio modernista. L’excursus storico del progresso umano visto dal lato femminile prosegue nell’esame dell’evoluzione dei sistemi di parentela, che hanno visto distinguere gli insediamenti se riferiti a comunità matriarcali oppure patriarcali. Espegel evidenzia che lo schema matrilineare riflette una vita comunitaria che produrrà, ad esempio, la casa a patio, mentre quello patrilineare è diretto a una «organizzazione più individualista» e costruirà un’aggregazione di architetture elementari: «massa accumulativa rispetto al volume prestabilito matrilineare».

Nel saggio sono vari i richiami ai modelli abitativi contraddistinti dai segni lasciati dalla condizione della donna dal XVII a XIX secolo. È agli inizi, però, del secolo successivo, in particolare dopo il primo conflitto mondiale, che la studiosa spagnola concentra il suo interesse rivolto ad affermare la posizione di primo piano assunta dalle donne architetto. Queste daranno il loro contributo originale in seguito al radicale cambiamento dei costumi sociali, conseguenza del disfacimento di un sistema valoriale non più rispondente alla razionalità del capitalismo e dove si colloca centrale la questione dello sviluppo della città moderna con la ridefinizione sociale dell’abitare e dello spazio domestico.

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LE ARCHITETTE SELEZIONATE nel saggio hanno tutte un percorso comune che inizia nell’artigianato e si evolve nel disegno industriale, tranne che per Margarete Schütt -Lihotzky il cui percorso formativo già la qualifica come architetto: la prima laureata in architettura in Austria.
Per Eileen Gray (1878-1976) l’esordio è nel disegno di raffinati mobili laccati prima di progettare case unifamiliari, tra le quali la famosa E.1027 (1929) in Costa Azzurra (Roquebrune-Cap-Martin).
Per la tedesca Lilly Reich (1885-1947) è la tecnica del ricamo a macchina (kurbel) che la conduce all’atelier della Wiener Werkstätte e poi al Deutsche Wekbund, la «Lega tedesca artigiani», per poi associarsi con Mies van der Rohe e insieme a lui insegnare per un breve periodo a Bauhaus, infine proseguire nel dopoguerra l’attività di designer di allestimenti, interni e arredi.

La francese Charlotte Perriand (1903-1999), dopo gli studi all’Union Central des Arts Décoratifs di Parigi, ha il suo punto di svolta con l’ingresso nello studio di Le Corbusier, incaricata di progettare gli arredi delle sue ville: si apre così una carriera che la condurrà ad affermarsi tra le più influenti designer della modernità.

PER L’AUSTRIACA Schütte-Lihotzky (1897-2000) l’inizio è già orientato ai temi sociali con la costruzione di case popolari collaborando con Loos e poi, all’interno dell’Associazione Orti Austriaci, per la progettazione di case per coloni. Sarà, però, dalla metà degli anni Venti, all’interno dell’ufficio tecnico di Ernst May a Francoforte incaricato dell’espansione urbanistica della città tedesca, che si misurerà con i temi dell’industrializzazione edilizia e della razionalizzazione economica dell’alloggio e dalla quale scaturirà la sua «cucina-macchina da lavoro» per la quale sarà per lo più ricordata.

Molti ritratti delle «pioniere» – delle quali Espegel narra le storie con cura di particolari – meriterebbero di essere approfonditi. Altri attendono, poi, di essere delineati dall’elenco che lei riporta con accanto tra parentesi «i nomi prestigiosi dei loro compagni o mentori». Alle future ricerche la possibilità di far uscire queste professioniste, «soggetti storici dell’industrializzazione architettonica», dal cono d’ombra nel quale sono state fatte cadere per così lungo tempo.