A cinquecento metri sotto il livello del mare esiste un mondo che viene dal passato e non ha un futuro: quello della miniera e dei suoi lavoratori. Valentina Pedicini, nel suo Dal Profondo, scende in questo universo parallelo per riportare alla superficie la voce di chi lo abita ogni giorno, come i padri ed i nonni prima di loro: i minatori. E tra loro un’unica donna, Patrizia, anche lei orgogliosa «figlia e nipote» della miniera, guida e anfitrione della regista pugliese nelle sue profondità.

Sotto Iglesias, in Sardegna, c’è infatti l’ultima miniera di carbone italiana, che nei mesi in cui Pedicini era lì lottava per restare aperta, mentre oggi, come racconta lei stessa «è in perdita, ha chiuso, ma restano delle persone per la manutenzione e per la messa in sicurezza». Il De Profundis che ci consegna Valentina è quindi quello di questo paese sotterraneo, grande quanto la città che lo sovrasta.Tutto era cominciato con una ricerca sulle miniere sarde abbandonate che, spiega la regista, «Mi hanno fatto sempre pensare ad un set cinematografico pazzesco inutilizzato. Poi ho scoperto che c’era ancora una miniera attiva, l’ultima italiana, dove lavorava una delle pochissime minatrici in Europa. La conoscenza di Patrizia mi ha convinta a continuare».

Da quel momento in poi, Pedicini ha passato circa tre anni a lavorare a Dal profondo, di cui uno intero insieme ai minatori, spesso sottoterra con loro.» Il girato che ha portato alla superficie il materiale che è entrato nel film viene da 28 giorni passati in miniera. Guidati dai minatori, scopriamo non solo il loro mondo parallelo, ma dobbiamo riconsiderare tutto quello che credevamo su di esso. «Sono arrivata – racconta la regista – con il pregiudizio da continentale, ma anche da documentarista: dopo 3 giorni in miniera mi chiedevo com’è possibile nel 2015 voler continuare a fare un lavoro che, se non porta alla morte per incidente, ne porta una per malattia, ed è incredibilmente usurante. Ed è la forza del documentario: i rapporti che ho instaurato con i minatori mi hanno aiutata a vedere oltre». Questo luogo fatto di cunicoli, tubi e macchinari, di gallerie che, «nell’apparente uniformità di un nero infinito sono molto diverse tra loro», ricorda la visione futurista del cinema di fantascienza anni’80: buio, umido, labirintico come in Alien e Blade Runner.

«Quando sono arrivata giù – spiega Pedicini – il primo riferimento che ho avuto è stato 20.000 leghe sotto i mari. Poi ho cominciato a scoprire i macchinari abbandonati dopo l’uso, che risalgono a 50/60 anni fa e rimandano a tutt’altro immaginario. Esteticamente abbiamo lavorato molto perché sembrasse un film di fantascienza». Da narratrice, cerca il più possibile di fare in modo che le voci del film contribuiscano a scrivere questa storia che «non è sui minatori, ma fatta con loro. Rispecchia la loro percezione di quel mondo sotterraneo, di persone che non hanno prospettive lavorative all’esterno, ma ancor più hanno una dignità un orgoglio e un attaccamento al lavoro che io non ho mai trovato in nessun altro». Sono loro stessi a mostrarci «l’ agonia, gli ultimi sussulti di vita di un mondo che sta per crollare». Il De profundis – continua la regista – è «anche la preghiera dei morti, che si invocano in chiesa per aiutarli a salire verso il paradiso. E per me i minatori gridavano il loro desiderio di essere riconosciuti, che si sapesse della loro esistenza».

Dal profondo è tra i cinque finalisti del Mese del documentario, e verrà proiettato oggi alla Casa del cinema di Roma. Al momento però Valentina Pedicini sta lavorando a qualcosa di molto diverso «Tutti si aspettavano un documentario, ed io faccio un corto di finzione. Ma c’è una ragione personale: la storia è vagamente autobiografica, e da documentarista mi sembrava più forte, per parlare di me, utilizzare il linguaggio della finzione e mettere un filtro. È una storia piccolissima, sull’ultima giornata di vacanza di cinque bambini. Ma in realtà si tratta della fine dell’infanzia, prima di entrare nel mondo degli adulti e scoprire che non è così bello e accogliente come l’avevamo immaginato». Interamente girato in esterni, nella natia Puglia, è un bel salto dalla claustrofobia di Dal Profondo. «Però – chiosa Pedicini – resto documentarista nell’animo, perché credo che il documentario abbia delle possibilità espressive nuove e maggiori rispetto ai film di finzione, ma anche perché è un lavoro fatto con il corpo e quindi da regista ti mette sempre in gioco».