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Nelle miniere cinesi dove la polvere uccide senza tregua

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Festival dei Popoli In gara «Dust» di Zhu Rikun

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 5 dicembre 2014

La pneumoconiosi è un’affezione dei polmoni provocata dall’inalazione di polveri. Amianto, silice, talco e metalli causano diversi tipi di fibrosi polmonari. Una in particolare ha destato l’attenzione del regista e produttore indipendente cinese Zhu Rikun che al Festival dei Popoli di Firenze è tornato in concorso dopo averlo vinto lo scorso anno nella sezione dei corti, con il lungometraggio Chen (Dust), ossia la «polvere» che i minatori respirano durante l’estrazione del carbone, e che provoca, appunto, la pneumoconiosi anche detta malattia del polmone nero. Un’affezione atroce nel suo decorso, che consta di tre fasi e che inesorabilmente conduce alla morte per soffocamento.

Zhu Rikun ha viaggiato per alcune regioni cinesi nelle quali si contano numerosi casi di decessi, e ha intervistato i minatori, molti al terzo stadio della malattia, per rendere testimonianza della loro condizione, e per dare visibilità a ciò che lo stato cerca, con esito positivo, di nascondere. Lo ha fatto grazie al supporto di un avvocato che sta provando, con esito negativo, a intentare una causa contro quelle istituzioni che non solo hanno mandato questi uomini incontro alla morte con delle misure di sicurezza fittizie, ma che hanno disatteso le richieste di risarcimento e di assistenza sanitaria, necessarie per famiglie che vivono in condizioni di estrema povertà.

Regista e avvocato, almeno per una parte del percorso, hanno viaggiato insieme, incontrando uomini destinati a morire, e oltre al dolore che si prova per la sorte di individui che lottano contro due mostri, lo stato con il suo apparato burocratico e economico, e la malattia, il film provoca un senso di disorientamento perché di fronte, sullo schermo, troviamo persone che con una compostezza al limite dell’umano, raccontano di come si siano ammalati, della loro fortuna nel non aver messo su famiglia, dell’andare incontro alla morte e persino, della volontà di donare le cornee. Si potrebbe facilmente affermare che questo è un film sulla Cina e sui diritti negati ai lavoratori di quel paese. E non si può disconoscere che sia così, per non far torto all’esperienza individuale di ogni minatore cinese, e per non vanificare con la superficialità di ogni riduzionismo e omologazione, la forza di un lavoro durato tre anni, nel quale Zhu Rikun, che ha presentato il documentario ieri sera in anteprima, ha rischiato più volte di essere arrestato e che in varie occasioni si è trovato alle prese con le autorità, non certo per ricevere un aiuto. Riconosciuta la specificità della storia, però, non possiamo fare a meno di notare come quelle vicende personali esibiscano una connaturata tensione a superare i confini di un contesto che secondo il più classico degli stereotipi viene bollato come distante e negativo.

Nella Val di Susa filmata da Gaglianone nel documentario Qui, riconosciamo persone che sentono di essere state schiacciate da qualcosa che pare inattaccabile e la loro fiera ribellione è dovuta al fatto che sono vive, al contrario di coloro che possono sperare di ottenere solo una vittoria morale e niente più. E la troupe del regista italiano si trova alle prese con un controllo da stato di polizia che non ci fa sentire più liberi dei cineasti e cittadini cinesi.

E non possiamo fare a meno di non notare il nesso con il recente caso della sentenza della Corte di Cassazione a proposito della Eternit Italia. Una relazione che però non deve essere pensata a causa del verdetto italiano e del mancato giudizio in Cina. Nell’unicità di ogni singola esperienza umana, ciò che stabilisce un nesso, fuori da ogni corte di giustizia, è il fatto che i minatori cinesi come gli operai di Casal Monferrato per sopravvivere siano stati costretti ad accettare un lavoro utile al sostentamento di un sistema nel quale la loro vita è stata e viene tuttora reputata sacrificabile.

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