Nelle lettere tra Giuseppe e Licy i silenzi sono più carnali delle parole
Il corpo ormai appesantito di Jeanne Moreau appare sullo schermo a sei minuti esatti dall’inizio. Lo spettatore vede prima le sue mani occupate a spalmare una tartina, poi la testa girata di tre quarti. Finalmente la macchina stringe sulla faccia coperta per metà da una veletta e il suo sorriso illumina con la sequenza tutto il film. Dice piccole cose, parla degli ospiti, rassicura il marito sul salotto in cui si gela. Lui le appoggia delicatamente sulle spalle una mantellina bordata di pelliccia.
Moreau ha già passato i settant’anni e nel Manoscritto del principe (2000), lungometraggio d’esordio di Roberto Andò, interpreta Alexandra Wolff von Stomersee o più semplicemente Licy, nobile lettone figlia di un maestro di corte dello zar e di una cantante lirica modenese, psicoanalista formatasi in Germania e in seguito prima presidente donna della Società Psicoanalitica Italiana, moglie dal 1932 del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa. La sua battuta decisiva arriva a sei minuti dalla fine, lei non si trova adesso nell’appartamento che dal dopoguerra divide a Palermo con lo scrittore del Gattopardo, ma in un cimitero: «Che silenzio… Questo è uno dei rari posti tranquilli di questa città. Nel silenzio c’è sempre una ricompensa, non è detto che sia una rinuncia o una perdita».
È una battuta che sembra adattarsi con precisione ferrea a definire anche la tonalità e il carattere, l’atmosfera interiore del suo carteggio con il marito, forse del loro stesso rapporto coniugale, così come lo illustra Caterina Cardona in Un matrimonio epistolare (Sellerio «La memoria», pp. 197, € 14,00). Apparso originariamente nel 1987, presso lo stesso editore ma nella collezione «Prisma» e con il titolo appena fuori fuoco Lettere a Licy. Un matrimonio epistolare, il volume racconta infatti una vicenda in cui i silenzi appaiono più sostanziosi, perfino più carnali delle parole. Non solo perché lo scambio tra Giuseppe Tomasi e sua moglie Alexandra ci arriva irrimediabilmente sghembo, ne restano tre spezzoni intervallati nell’arco di quindici anni da ampie lacune e quasi mai scanditi da una reciprocità tra i due corrispondenti, ma anche perché la conversazione può realizzarsi solo all’insegna di un traslato che dalla parola precipita verso il silenzio. Cardona stessa sceglie di costruire il proprio libro non affiancando una lettera all’altra, tantomeno ordinandole in sequenza cronologica, piuttosto cucendole tra loro, intere o per frammenti, con il filo della sua propria voce: sapientemente le integra, le incornicia dentro il loro mutevole scenario, le offre al lettore interpretandole. In qualche modo le traduce.
«Una delle particolarità singolari degli epistolari, e forse una delle principali ragioni del fascino che li circonda, sembra derivare dal loro carattere di “soglia”, dal loro porsi, cioè, lungo il confine ambiguo che separa lo scambio dialogico con l’altro dalla solitudine autosufficiente della scrittura» afferma l’autrice nell’introduzione dell’87. Questa soglia diventa nel libro quasi fisica. Marito e moglie vivono lontani per lunghi periodi, a palazzo Lampedusa lui e lei nel castello di Stomersee in Lettonia: ognuno dei due appare così tenacemente legato alla propria casa che l’una e l’altra abitano il carteggio da invadenti protagoniste. La loro duplice perdita segna tra il 1943 e il 1944 il momento più scoperto, commosso di questa «conversazione al rallentatore»: due personalità così diverse, due mondi e due civiltà così distanti parlano qui un linguaggio che si consente l’intimità. Per il resto ogni sentimento è taciuto nelle lettere, occultato o mascherato da racconti sui pazienti di lei e sui pasti di lui, sui cani massimamente amati da entrambi. Lo slittamento linguistico, gli sposi si scrivono in francese con cursorie quanto mirate interferenze in inglese e in italiano, rappresenta giustamente per Cardona la cifra quasi tattile di quella segretezza che avvolgendolo in una luce crepuscolare percorre l’intero carteggio.
Ha senso che l’autrice scelga per il libro una struttura notturna, aprendolo con un sogno fatto da Tomasi nel 1950 e chissà se mai interpretato da Wolff in cui individua il definitivo passaggio dalla scrittura privata del carteggio a quella del romanzo; così come si accorda al significato vero del racconto lo stile declinato nei toni del «pudore»: mai intrusivo né tecnico ma colloquiale, limpido, affabile.
«L’atto di scrivere e spedire una lettera è un atto di generosità anche se, retrospettivamente, ci può sembrare avventato. Perché rimpiangere la generosità?» si domandava più di vent’anni fa Joyce Carol Oates riflettendo sulle lettere inviate a Hawthorne dalla moglie Sophie e bruciate da lui alla morte di lei. Un atto di generosità, oltre che conservarle, è anche prendersene cura dopo averle ritrovate. Offrirle con passione e grazia a sconosciuti lettori.
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