Gli anni, il libro più ambizioso (e più celebre) di Annie Ernaux – scrittrice cui è altrimenti congeniale la forma del romanzo breve, anche in ragione del discorso sulla scrittura da lei portato avanti (levigatezza, volume «piatto» e affilato della prosa, accuratissima economia di mezzi espressivi) – è una sorta di autobiografia collettiva, in cui l’elemento individuale funge da innesco, primo passo dal quale far scaturire un racconto impersonale, in cui l’io più che stemperarsi infine si completa, e in qualche modo trova la lingua per riconoscersi e allo stesso tempo uscire da sé.

EDITO IN ITALIA da L’Orma nel 2015, Gli anni è anche un romanzo «fotografico»: i passaggi sul personaggio femminile che introducono le varie parti dell’opera si presentano come vere e proprie istantanee, e sono le scintille, gli scatti che preparano l’apertura dell’inquadratura. Il libro comincia del resto con una affermazione – «Tutte le immagini scompariranno» – che, stricto sensu, sarebbe prettamente fotografica: arte con la quale Ernaux si è confrontata anche direttamente, nello sperimentale L’usage de la photo (inedito in italiano), opera «fotobiografica» nella quale le immagini – per lo più di vestiti suoi e del suo amante sparsi alla rinfusa per casa durante notti di passione – compongono un sorprendente diario intimo che ricorda certi lavori di Sophie Calle, e Journal du dehors (Diario dalla periferia, Rizzoli 1994), quaderno di annotazioni al limite della pura sociologia, definito dall’autrice «una raccolta di istantanee della vita urbana collettiva» (volti, banchine del metró, graffiti, dettagli minuti) anche se si tratta di «istantanee» in forma di testo scritto, raccolte tra Cergy-Pontoise e Parigi nell’arco di tempo 1985-1992, e punteggiate di interessanti quanto fuggevoli meditazioni sulla scrittura.

Deve essere sembrato naturale ai curatori della Maison Européenne de la Photographie di Parigi costruire attorno alle suggestioni di questi due libri Extérieurs. Annie Ernaux & la Photographie (visitabile fino al 26 maggio alla Mep, a un passo da Saint-Paul), una mostra di fotografie scelte dalla collezione permanente, e immaginata insieme alla stessa scrittrice.

L’ESPOSIZIONE è il risultato di una residenza di ricerca alla Mep, presso il dipartimento delle collezioni, della curatrice britannica Lou Stoppard, ed è organizzata secondo un percorso in cinque «stanze»: «Intérieur/Extérieur», «Confrontations», «Traversées» (foto, e pagine, in treni e metropolitane), «Lieux de rencontres», e «Faire société».
Centocinquanta stampe di ventinove diversi autori, tra cui Gianni Berengo Gardin, Luigi Ghirri, Martine Franck, William Klein, oltre a Harry Callahan, Claude Dityvon, Dolorès Marat, Daido Moriyama, Janine Niepce (le sue scene parigine sono tra le più belle), Issei Suda, Henry Wessel e Bernard Pierre Wolff tra gli altri, per coprire in fotografia un periodo che va dall’anno della nascita di Ernaux, il 1940, fino al 2021, e una estensione geografica che, oltre alla Francia, tocca l’Inghilterra, il Giappone, gli Stati Uniti e altri paesi.

Più che attestarsi come un mero omaggio alla recente vincitrice del Nobel, l’esposizione riesce a proiettare una luce originale sulla sua opera letteraria, associando alle pagine sottovalutate (o messe in ombra dai romanzi) del Journal e dell’Usage immagini non necessariamente congruenti da un punto di vista storico e geografico.

Hiro, Shinjuku Station, Tokyo, 1962 © The Estate of Y. Hiro WakabayashiFELICE INTUIZIONE, che sottrae la prosa di Ernaux al suo stesso contesto, e secondo una dialettica in fondo coerente con il suo stile, ne propone una lettura intemporale, che se da un lato vorrebbe rivelarne l’universalità, finisce per stemperarne il lato autobiografico o quello tersamente engagé e lascia che dagli sguardi e dai corpi ritratti, tanto in foto quanto in pagina – grazie ai pannelli di grande formato che riportano brani dai libri citati –, si sprigioni una rinnovata forza poetica.

Se l’aspirazione di Ernaux era di scrivere con la stessa esattezza laminare con la quale si chiude l’otturatore di una macchina fotografica, nel dialogo fra testi e immagini l’esperimento di Stoppard si direbbe darle ragione. Ma è piuttosto una certa forza diabolica della grande fotografia, più che la sua superficiale e supposta «precisione», a propiziare l’incontro con l’autrice normanna.
Quella stessa forza che rende l’arte fotografica inesauribile e misteriosa, specchio convesso in cui continuare a cercare un riconoscimento impossibile, e un senso che pure, nonostante i migliori sforzi profusi dall’ingegno umano, seguita a sfuggire.