Nella testa di «Joker» la rivolta impossibile del contemporaneo
Al cinema Leone d’oro a Venezia, il film di Phillips guarda più a Scorsese e alla NY tra gli anni ’70 e ’80 che ai comics. Joaquin Phoenix dà vita a un personaggio in bilico tra allucinazione e realtà, fantasie e frustrazioni
Al cinema Leone d’oro a Venezia, il film di Phillips guarda più a Scorsese e alla NY tra gli anni ’70 e ’80 che ai comics. Joaquin Phoenix dà vita a un personaggio in bilico tra allucinazione e realtà, fantasie e frustrazioni
Arriva in sala Joker, Leone d’oro alla Mostra di Venezia non senza critiche – focalizzate soprattutto sull’opportunità di premiare a una «Mostra d’arte un cine-comic che peraltro ha scontentato anche i puristi del genere – e intorno al quale in America si sono accese accuse e paranoia diffusa riguardo a un potenziale emulatorio di violenza. Diciamolo subito: il film di Phillips non è nulla di tutto questo, il corpo del protagonista si fa piuttosto portatore e espressione dell’aria dei tempi, del nostro presente anche se forse non tratteggiato rischiandone fino in fondo l’ambiguità. E Gotham City, affogata nell’immondizia, tra il fetotre e i super-ratti che spadroneggiano ovunque somiglia più alla New York degli anni settanta-ottanta che all’originale del fumetto, così come il cinema di cui il regista dichiara i riferimenti, Taxi Driver e Re per una notte di Scorsese – e non a caso Robert De Niro interpreta qui il personaggio del divo della tv amato da Joker .
Là fuori va sempre peggio sussurra a sé stesso Arthur Fleck, la mamma lo chiama «Happy» da piccolo gli ripeteva che era nato per far ridere e oggi con la maschera da clown lavora come uomo-sandwich per un negozio di dischi che sta fallendo. La gente è arrabbiata i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, in mezzo il niente, solo sacchi di rifiuti. Arthur con la sua maschera allegra si becca calci e pugni dai ragazzini ma continua a sorridere, una risata terribile che è un singulto e la sua malattia: dentro e fuori dagli ospedali psichiatrici, pillole e un vago supporto medico che i tagli al welfare cancellano all’improvviso, i sogni impossibili di una carriera da stand-up comedian davanti agli show della sera primo tra tutti quello di Murray Franklin (De Niro), una specie di Letterman, che guarda insieme alla madre ossessionata dai suoi misteri.
Joker potrebbe intitolarsi «Being Joker» o «Being Arthur Fleck», nella testa del personaggio – ispirato al nemico di Batman nel fumetto DC Comics di Bob Kane, Bill Finger e Jerry Robinson – Phillips racchiude infatti l’intera narrazione sul confine anche ironico di «vero»/«falso», allucinazione/desiderio che rimbalzano come frammenti di uno specchio infranto. Il suo Joker è protagonista assoluto, senza rivali «buoni» occupa finalmente per intero la scena che gli è stata sempre negata nella sua esistenza. È dunque soltanto follia in cui precipitiamo o nel suo distacco dal reale balena l’essenza di una contemporaneità disgregata, virtuale, sminuzzata tra social e schermi digitali dove ciò che conta – come per Arthur/Joker è essere visto/guardato?
CHI È JOKER allora? Un pazzo omicida, un paranoico traumatizzato dall’infanzia violenta, dal padre segreto, il miliardario padrone della città, Thomas Wayne, che nega di essere suo padre? Tua madre – la serva sottinteso – è solo una pazza gli dice con disprezzo. O è invece il rappresentante con la faccia da clown eletto come tale dai diseredati, coloro che come lui sono invisibili, il simbolo «vuoto» di cui hanno bisogno per accendere la rivolta contro la strafottenza della ricchezza che li schiaccia sempre di più?
QUANDO Arthur esplode uccide tre ragazzi in metropolitana. Stavano molestando una ragazza con l’arroganza di chi può tutto, i media li piangono, erano tre giovani promesse della finanza, per molti il gesto diviene invece l’inizio di una lotta. Ma quale? Può essere criminale o liberatoria, geometrica potenza o sovranismo e ancor più una confusa miscela di tutto questo. Il fatto è che suo malgrado la massa idolatra Joker, è il corpo del capo in quella sua strabica danza sporco di sangue e trucco, la lacrima di rimmel che solca il ghigno delle labbra, schermo di frustrazioni collettive. E se fosse tutto nella sua testa, mai accaduto?
Su questo scarto il Joker di Phillips è affidato alla genialità di interprete di Joaquin Phoenix – capace come pochi attori di mettersi in gioco con ogni nervo, muscolo, battito di ciglia. Lui vuole solo far ridere, è il suo desiderio più grande, vorrebbe essere come Chaplin, di fronte ai cui film (Tempi moderni) la città che conta nelle serate di gala si diverte, ma la sua risata esplode quando non c’è nulla da ridere. Sembra una strafottenza con quel suono sibilante, magari è imbarazzo o è dolore di un’emozione repressa. È inopportuna come lui. E fa paura. Ma è sempre questione di punti di vista.
INTANTO Gotham brucia, la gente si prende quello che non può, quello che l’economia sanguisuga gli ha tolto insieme all’assistenza e a ogni diritto di essere curati, di avere una casa, un lavoro, di esistere. Quella di Joker era forse solo vanità ma a loro non importa se dentro o intorno la sua figura c’è qualcosa. Siamo in un passato o nell’attualità? La politica – Joker lo ripete in tv prima di un colpo magistrale – è finita, non esiste nemmeno una solidarietà nella protesta, chi invade le strade è pronto a ammazzarsi reciprocamente assecondando una rabbia individuale che prevarica la dimensione collettiva. La maschera del clown – che ricorda quella di Anonymous – si confonde nell’onda populista, i confini si fanno labili, la consapevolezza di obiettivi si annulla nell’esaltazione che cerca dei nemici – qualunque essi siano e per qualsiasi ragione. È questa inquietudine la cifra di Joker interprete sfacciato di un mondo distorto come la sua testa, sigaretta dopo sigaretta, eroe nonostante lui.
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