Nella pelle malconcia di un hooligan
Intervista Parla lo scrittore tedesco Philipp Winkler, tra i finalisti del Deutscher Buchpreis con «Hool», un romanzo sui «teppisti» del calcio, figli di una Germania di lavoratori manuali e precari
Intervista Parla lo scrittore tedesco Philipp Winkler, tra i finalisti del Deutscher Buchpreis con «Hool», un romanzo sui «teppisti» del calcio, figli di una Germania di lavoratori manuali e precari
«Un ultimo urlo. Il bosco ammutolisce. Poi lo schianto dei corpi. Partono pugni e gambe. Vedo Axel risucchiato dalla falange del Colonia. Ne ho davanti uno. Mi arriva incontro un pugno. Assecondo la traiettoria. Incasso il colpo. Mi butto addosso al mio avversario, che non cade. Troppo stabile, il bastardo. Sbruffa. Mi vola gente tutt’intorno. Agganciati. Abbrancati. Stritolati fra le braccia degli altri. Menano colpi. La testa rasata davanti a me ha muscoli a pacchi. Fanculo. Alzo la guardia. Fingo di spostarmi a sinistra. Lui ha avuto la stessa idea. È sorpreso. Il pugno che mi arriva è affrettato. Lo schivo. Ho avuto di nuovo fortuna. Ma la clavicola scricchiola. Sembra che vibri. Chissenefrega, mi dico. Salto avanti».
L’esordio narrativo di Philipp Winkler, Hool (66thand2nd, pp. 288, euro 18, traduzione di Roberto Cravero) è un’immersione selvaggia nel circuito degli hooligans, raccontato in prima persona da Heiko che insieme ad altri sostenitori della squadra dell’Hannover 96 organizza, lontano dagli stadi e dalle telecamere della video-sorveglianza, vere e proprie battaglie, ma a mani nude, con i rivali di altri club. Finalista al «Deutscher Buchpreis», il più importante premio letterario tedesco, il romanzo del 31enne scrittore e giornalista del nord della Germania, la cui opera è stata portata in teatro dal regista Lars-Ole Walburg, indaga senza moralismo né compiacenza un aspetto del mondo giovanile che ruota, lo si voglia ammettere o meno, intorno al calcio. Un libro duro, scandito da un linguaggio essenziale che va alla ricerca di sentimenti laddove sembra regnare solo la violenza.
Come è nato questo romanzo, quanto deve alle sue esperienze personali?
Volevo scrivere ciò che avrei sempre voluto leggere, vale a dire un romanzo sul fenomeno dell’hooliganismo in Germania che fino ad ora è stato trattato solo attraverso inchieste e reportage. Così, già quando studiavo scrittura creativa all’Università di Hildesheim ho cominciato a prendere appunti e ad immaginare una storia che almeno in parte è poi confluita in Hool. Per il resto, sono partito dal mio interesse per questo tema e mi sono semplicemente guardato attorno. Il romanzo è ambientato nella zona in cui sono cresciuto, il protagonista, Heiko, ha all’incirca la mia età e come me viene da una famiglia operaia. Non sono mai stato un hooligan, ma ne ho conosciuti tanti.
In passato, Heiko e i suoi amici hanno frequentato la curva e gli ultrà, ma ora sono diventati qualcosa di diverso: cosa significa essere un hooligan?
Oggi in Germania vuol dire soprattutto incontrarsi fuori dagli stadi, fissare ora e luogo di un «match» che si svolgerà al riparo da occhi indiscreti, in particolare quelli della polizia, e combattere a mani nude sotto la bandiera della propria squadra di calcio contro gli avversari del momento: gli hooligan di un’altra città. Tutto ciò che accade tra uno scontro e l’altro, all’interno di questo microcosmo formato quasi esclusivamente da maschi, è in realtà secondario. Tutto si concentra nello scontro e nella sua preparazione
Espulsa dagli stadi di calcio, controllati con telecamere e agenti in borghese, la violenza diventa così la base per una sorta di cultura giovanile a sé stante?
Nel libro si parla della differenza tra ultras e hooligans, che in Germania è evidente, anche se in altri paesi è forse più sottile. Nel primo caso parlerei effettivamente di una cultura giovanile, e anche a vocazione di massa, mentre per gli hooligans il discorso è diverso. Si tratta di un circuito molto più ridotto, meno articolato dal punto di vista simbolico e che non raccoglie tanto gli adolescenti, come accade in tante curve, ma ragazzi più grandi e talvolta, come nel caso di coloro che hanno cominciato a picchiarsi sugli spalti negli anni Novanta, persone che oggi vanno anche per la quarantina. Per loro la violenza è una sorta di urgenza, non solo qualcosa che ha che fare con i meccanismi di socializzazione, ma che riguarda la propria identità, direi quasi il proprio istinto.
Non si può dire che i protagonisti del romanzo abbiano delle vere opinioni politiche, eppure si oppongono nettamente ai neonazisti. Le cose vanno così anche nella realtà?
Non puoi convivere per anni con dei personaggi su cui stai lavorando senza finire per influenzarne le scelte. A determinare l’atteggiamento così duro verso i naziskin di Heiko e i suoi amici, sono state soprattutto le mie opinioni al riguardo. Allo stesso tempo, però, volevo anche sfatare uno dei cliché più ricorrenti sull’argomento: almeno in Germania, malgrado quello che si è soliti pensare, solo una parte degli hooligans è legata all’estrema destra. Per il resto, un buon numero dei gruppi della «scena» si dichiara «apolitico», anche se poi è tutto da capire cosa questo significhi nei fatti. Perciò direi che si tratta di una rappresentazione sufficientemente autentica. Nel libro ci sono i neonazisti perché sono una componente di questo mondo. E ci sono altri hooligans che come Heiko non li sopportano proprio. Ciò non impedisce però loro di utilizzare slogan o atteggiamenti ambigui, come i cori che evocano la Seconda guerra mondiale, ma che sono legati più al contesto sociale e al lessico violento dei ragazzi che ad un qualche opinione politica. La fotografia di quanto accade è questa, mi sono solo limitato a ritoccarla un po’.
La Germania di questi ragazzi appare lontana da quella del primato economico di cui ci parlano d’abitudine le cronache. Si muovono nel lato in ombra della realtà del paese?
Senza dubbio. Il «loro» paese è quello della classe lavoratrice medio-bassa, dei lavoratori manuali, di precari e disoccupati. Si tratta di persone che perlopiù vivono nelle periferie delle grandi città e in quelle che gli americani chiamano le «cinture di ruggine», le aree industriali, oggi spesso dismesse o in fase di ristrutturazione, che erano sorte soprattutto intorno alle metropoli. Alcuni dei miei personaggi sbarcano il lunario con lavoretti occasionali, altri campano ai limiti della legalità. Altri hanno però lavori regolari o sono ancora studenti: da questo punto di vista il mondo degli hooligans racconta una Germania arrabbiata, ma non sempre marginale o proletaria.
Per Heiko, gli hooligans sono qualcosa di più di un gruppo di amici, quasi la forma attraverso la quale ricostruisce la propria famiglia, dove proprio il tifo calcistico e la violenza si sono tramandati, tra maschi, da una generazione all’altra.
In effetti, nel suo caso si potrebbe parlare quasi di un’identità che si trasmette di padre in figlio. Anche se in realtà, lui con il padre andava solo a vedere le partite, mentre è soprattutto con lo zio, un hooligans degli anni Novanta, che ha scoperto questo mondo. Perciò, nel suo personaggio convivono due aspetti. Da un lato, è diventato un «teppista» del calcio in qualche modo per tradizione familiare, dall’altro, è andato definendo se stesso e ha ricostruito intorno a sé una sorta di nuova famiglia, per colmare i vuoti e le assenza che caratterizzano quella in cui è nato. Il confine tra questi due elementi mi appare così sottile perché credo che condividere gli stessi interessi o la stessa passione sia sempre la prima tappa di qualunque costruzione identitaria, ciò che ci fa per molti aspetti quello che siamo.
Il suo romanzo è stato paragonato a «Fight Club» di Palahniuk, ma si ha l’impressione che in «Hool» l’estetica della violenza sia meno pronunciata e che ci si trovi piuttosto in un territorio narrativo affine a quello di Clemens Meyer, che ha raccontato con estrema sobrietà i traumi della riunificazione e del post ’89 tedesco in «Eravamo dei grandissimi» (Keller, 2006).
Ovviamente, trovo molto lusinghiero essere paragonato ad autori che mi piacciono come lettore e che stimo moltissimo. In realtà però, quando ho scritto Hool credo di essermi ispirato, sia per quanto riguarda la lingua e i dialoghi che, per così dire, il «materiale didattico», più ad Arancia meccanica di Burgess più che a Fight Club. Quanto alla vicinanza con Meyer, la rivendico senza dubbio. Lui è un po’ più grande di me, e scrive già da tempo, ma sento che abbiamo più di un punto in comune. Non fosse altro perché entrambi scriviamo della working class tedesca. E perché i nostri personaggi non vivono certo nel centro di Berlino, né sono dei giovani ricchi e annoiati che non sanno cosa fare delle loro vite privilegiate.
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