Nella notte oscura della dittatura tra Storia e sogno cantano le armi
A teatro Debutta al Piccolo «Ho paura torero», dal romanzo di Pedro Lemebel per la regia di Claudio Longhi
A teatro Debutta al Piccolo «Ho paura torero», dal romanzo di Pedro Lemebel per la regia di Claudio Longhi
A che punto è la notte? L’angosciata interrogazione di Macbeth che ha perso il sonno e del profeta Isaia sconvolto davanti alle distruzioni percorre sotterraneamente tutta la lunga notte di Ho paura torero che Claudio Longhi e Lino Guanciale hanno tratto dal romanzo di Pedro Lemebel. Sogni impossibili che cercano la notte. Notte di sangue che non può lavarsi dalle mani, quando il crepuscolo desiderato diventa terrore. La lunga notte della dittatura militare. Perché è un sogno fatto nel Cile di Pinochet, lo spettacolo che ha debuttato al Piccolo teatro Grassi, e infatti si apre con la voce del presidente Allende, il suo ultimo messaggio mentre va incontro ai golpisti. E tutt’intorno, sulle pareti che contornano la scena, si affollano murales e manifesti di quegli anni, pugni che stringono fucili e slogan che inneggiano alla revolución. Lino Guanciale en travesti in un melò in chiave queer nel Cile di Pinochet
MA CHI SOGNA cosa? Torna in mente il paradosso di Zhungzi che sognò di essere una farfalla e al risveglio non sapeva più chi era realmente. Due azioni parallele si sovrappongono infatti fino a intrecciarsi nello spettacolo. La vicenda sentimentale spinta fin dentro il melò di un amore impossibile, per il protagonista, o meglio si dovrebbe dire la protagonista, conosciuta come la Fata dell’angolo in quel suo mondo marginale di travestiti. E la ritmata comparsa del generale Augusto Pinochet e della sua fastidiosa consorte Doña Lucía dalla stridula voce urlante, che assume un po’ la veste del fool dentro la tragedia – e sono bravi Mario Pirrello e Arianna Scommegna a spingere i due personaggi fuori dall’iconografia. Lui ossessionato da sogni angosciosi che rivivono traumi infantili o prefigurano la sua morte, mentre da sveglio se ne sta per lo più inerte in poltrona a leggere il giornale o ascoltare la prediletta marcia di Radetzky. Lei che è la vera mente politica e sente avanzare il discredito internazionale di quell’uomo ridicolo, abbandonato anche dal governo americano che fino a poco prima rivendicava con Kissinger la necessità del sanguinoso intervento militare contro i «comunisti».
Nello spettacolo si sovrappongono la vicenda sentimentale e la figura del generale
SIAMO NEL 1986, anno tredicesimo del regime di Pinochet, l’anno del fallito attentato alla vita del dittatore che costituisce anche l’apice spettacolare di Ho paura torero, fra pirotecniche esplosioni che infiammano il fondale. Un anno marchiato a fuoco dai copertoni fumanti per le strade di Santiago, dice la Radio antropomorfa che ogni tanto aggiunge un pezzetto di cronaca, ufficiale o clandestina, alla successione degli eventi. Insomma è la Storia che vien fuori dal melò in chiave queer, anche se loro, in quegli anni ottanta del secolo scorso si esprimono in termini meno politicamente corretti. Ed ecco allora le madri che scendono in piazza con le fotografie dei figli desaparecidos o picchiando rumorosamente sulle pentole. Ecco la parete di fondo riempirsi dei volti di quei ragazzi e ragazze. Sembrano tanti ma sono solo una piccola parte degli scomparsi, il numero reale non si saprà mai. Qualcuno dice tredicimila. Poi c’è Lino Guanciale che questo spettacolo ha fortemente voluto, rinnovando la collaborazione con la regia di Claudio Longhi che omaggia il suo maestro Luca Ronconi. E oltre che protagonista è anche dramaturg della riduzione teatrale dell’unico romanzo di Lemebel, Ho paura torero appunto, autore soprattutto di «cronache» che come qui mettevano insieme le vicende del paese e quel mondo di genere non codificato di cui si sentiva parte.
MATTATORE RILUTTANTE, verrebbe da dire di Guanciale. Ma la definizione non è precisa. Perché la vicenda sentimentale e politica della Fata dell’angolo sta certamente al centro dello spettacolo e la sua prova d’attore ne è il perno. Si è innamorata, la Fata, dello sfuggente studente Carlos (Francesco Centorame) piovuto in casa sua insieme a misteriosi compagni e tante casse che forse non contengono soltanto libri. Ed è tutto un ballo, tutto un risuonare di vecchie canzoni in quel bric-à-brac che è la scena di Guia Buzzi, uccelli impagliati, manichini a pezzi e abatjour che piovono ruotando dall’alto davanti a una parete di lamiere ondulate che si apre su un praticabile a mostrare panorami lontani. Ma il segno dello spettacolo resta collettivo, nel moltiplicarsi dei personaggi che si raccontano passando dalla prima alla terza persona, come a guardarsi dall’esterno (sono Daniele Cavone Felicioni, Michele Dell’Utri, Diana Manea e Giulia Trivero). Ma è la memoria che parla. Ho paura torero, ho paura che stasera il tuo sorriso svanisca, cantava la Fata. Fuori cantavano le armi. Successe davvero? Continua a succedere, ininterrottamente.
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