Le luci del palco sono spente da tre ore, ma la musica dei Blur continua a risuonare fuori e dentro le mura della città, come in un concerto diffuso. Tra i tavolini del centro si alternano le playlist dagli altoparlanti dei bar e i primi video della serata, telefonini low-fi e commenti a caldo. Un drappello di fan, palesemente inglesi, intona Girls & Boys con la stessa solennità di un coro da stadio. È il terzo tempo dell’unica data italiana per la band di Colchester, a dieci anni dall’ultimo live nel nostro paese e a ventiquattr’ore dall’uscita di The Ballad Of Darren (Parlophone), la cui copertina già iconica punteggia i viali che conducono al terreno erboso su cui si affacciano le mura di Lucca.
Il nuovo album interrompe il secondo più lungo silenzio dei Blur, confermandone il credo: se non si ha nulla di importante da dire, meglio tacere. E recide, forse per sempre, il cordone ombelicale che li legava all’ideologia e all’immaginario del britpop e degli anni Novanta tout court, convitati di pietra sul prato lucchese. La band riunita per l’uscita del nuovo album «The Ballad Of Darren»

DI COSE da dire, The Ballad Of Darren ne ha moltissime, per come scende a patti con l’invecchiamento, la disillusione e la morte, e per come parla a una platea ben più universale di quella Generazione X che nella musica dei Blur ha trovato parte della propria cronistoria. È la loro opera emotivamente più densa, manifesto di un nuovo indirizzo musicale in cui convergono le esperienze collaterali di Albarn, la produzione di James Ford (già con Arctic Monkeys e Depeche Mode) e lo spirito del Bowie di metà anni Ottanta. È il terzo tempo anche per i Blur, il cui live ha le sembianze di un concerto da pub trasposto in un’arena. È proprio un brano dall’ultimo album, St. Charles Square, ad aprire il sipario (e saranno solo i tre singoli a rappresentare in scaletta il nuovo disco, che verrà presentato integralmente stasera — anche in streaming — all’Eventim Apollo di Londra).

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Coppa dei Campioni, Oasis vs BlurNESSUNO fa finta di essere giovane né sano. Anche quando accenna a uno stage diving, il frontman sembra voler sbeffeggiare il suo passato da britpopstar: polo bianca da antidivo, scavalca le transenne con l’agilità del 55enne pasciuto. I ragazzi che trent’anni fa titolavano Modern Life Is Rubbish sono diventati adulti: Damon e Graham si alternano tra carriere soliste e progetti paralleli, Alex produce formaggi, Dave si è dato alla politica. Ora sono di nuovo insieme senza essersi mai davvero lasciati.
Ad ogni modo la lunga assenza dai palchi reclama un minimo dazio di sbavature iniziali, come per l’attacco non proprio metronomico di Beetlebum. Poca cosa. Non fa finta di essere sano neanche l’impianto audio, che proprio come al pub salta dopo mezz’ora scarsa. Si riparte in quarta con Coffee And TV e Graham Cox inizia a salire di giri. Così la sua intesa con il leader: le voci si intrecciano, le chitarre si fronteggiano. Se la loro storia scandisce i decenni con liti e riappacificazioni, il sabato sera toscano è tutto un gioco di sguardi, risate, e un bacio del primo sulla nuca del secondo.
In uno dei suoi sporadici interventi parlati, Damon dice di sentirsi incantato, «humbled», dalla ricchezza della nostra cultura, e racconta di una basilica cittadina appena visitata: «So peaceful, so dead». Dichiarato defunto è anche il Novecento di End Of A Century, cui segue senza soluzione di continuità Country House, primo grande appello canoro per i 35mila spettatori del Lucca Summer Fest. I quali acclamano Albarn, quando indossa la celebre tuta del video originale di Girls & Boys — altro modo per dire: non siamo più quelli di trent’anni fa — ed esplodono nei due minuti di Song 2, così punk a risentirla oggi.

LA RITMICA va, nonostante qualche tentativo di fuga di Rowntree, ripreso da un Alex James che sembra passato lì per caso, in bermuda e inestinguibile sigaretta tra le labbra. Graham è sempre più ridanciano, come sorpreso di ricordarsi a memoria tutti quei vecchi pezzi. Damon continua a gigioneggiare fino a The Narcissist, futuro evergreen, tra i brani più autobiografici del suo intero canzoniere. Ed è impossibile non leggere nel controcanto di Cox il segno del legame fraterno tra due persone sopravvissute all’eroina e all’alcolismo.
Si giunge alla pausa con This Is A Low — oggi si direbbe un inno alla resilienza — e si riprende con Barbaric (da The Ballad Of Darren), che invece è cronaca di una rottura. Il finale è tutto un alternarsi di pubblico e privato. Se Tender è il coro destinato a riecheggiare per le strade della città, The Universal si riprende il posto d’onore a fine concerto, chiudendolo con una perfetta sintesi della situazione: «No one here is alone». Il terzo tempo può cominciare.