«Prima una terra terrosa/ poi un’altra, no, la stessa» scriveva Mario Luzi, perdendosi tra i ricordi nelle valli di Montepulciano. Prima e poi la stessa terra, dunque, un progetto continuo, una somma di paesi infiniti. Perché è in questo luogo apparentemente senza fine che, tra terra e terra, resistono gli spazi vani. Eliminati dalla logica e riproposti dalla fisica i paesi abbandonati scavalcano il principio di non contraddizione e affermano un’esistenza pari – se non forse superiore – a quella dei luoghi abitati.

È l’«Italia vuota», quell’Italia lasciata agli ultimi paladini del mondo di ieri fatta di tante Maurilia: «città diverse che si succedono sullo stesso suolo», come avrebbe descritto Calvino una delle sue città invisibili. Tredici milioni di donne e uomini, scivolati via dalle agende politiche e lasciati soli in uno spazio di terra talmente esteso da costituire «più della metà del territorio nazionale» vivono nei residui dell’Italia rurale. Alcuni sono sempre rimasti lì, altri sono forse ritornati.

È IN QUESTA CONTINUITÀ fatta di luoghi abitati e inabitati, di ritorni in montagna per necessità, di caverne inesplorate e lavori riscoperti, che si inserisce la ricerca etnografica di Filippo Tantillo nel volume L’Italia vuota. Viaggio nelle aree interne (Laterza, pp. 216, euro 15). È raccolta in quei luoghi una generazione che nel fare quotidiano «si ribella alle profezie autoavveranti dell’abbandono» e che rimane uno strumento fondamentale per la comprensione delle dinamiche sociali del Paese. Viaggiare per le «aree interne», che attraversano il paese e arrivano fino al mare, «in un’epoca nella quale gli scienziati sociali guardano il mondo solo da lontano, e Google Maps determina la nostra maniera di immaginare il territorio», serve cioè a proseguire quel lavoro di immaginazione – e quindi comprensione – di una parte fondamentale del Paese.

È viaggiando lungo il rosso Simeto che è possibile imbattersi nel presidio delle sessantatré organizzazioni della valle riuscite ad accantonare il progetto di un inceneritore, passando in questo modo «dalla protesta alla proposta», sviluppando quel concetto che Amartya Sen ha chiamato capability e che altro non è che «la capacità di intervenire nelle decisioni che li riguardano direttamente». Il viaggio di Filippo Tantillo è allora un viaggio attraverso. Da una parte la possibilità di immaginare il territorio, dall’altra la rappresentazione viva di una resistenza, tra camion di amianto svuotati ai bordi dei fiumi e musei archeologici nati dopo cinquant’anni di trafugamenti. E tra un viaggio a Valloriate, dove si assiste al più piccolo festival di cinema di montagna al mondo, e uno a Smeraldo, nelle Valli Occitane, dove vivono gli operai del gruppo Peugeut-Stallantis che ancora parlano occitano, Tantillo è capace di ammettere tutta la devozione per le vite degli altri.

TRA TANTE QUELLA DI MARC, operaio di fabbrica, che nel tempo libero rimette in piedi «edifici rurali diroccati». Ha la stessa grazia e la stessa poesia di quell’uomo che, in un libro di pochi anni fa, passava la vita a piantare alberi. Esiste, diremmo allora, una continuità inesplorata, capace di descrivere i profili dei nostri paesi, di legare a sé, in un unico discorso, l’ordine medievale dei borghi toscani alla realizzazione della costa calabra che, davvero, come scriveva Piovene «sembra essere creata da un Dio capriccioso». Esiste questo mondo perché esistono questi mondi: interni articolati che, come piante, hanno decentralizzato le loro funzioni vitali, e perciò resistono. Sono i vuoti che si riempiono, che producono storia anche se non ce ne accorgiamo, che danno corpo e senso alla Strategia delle aree interne in cui la memoria dei luoghi è rianimata dall’esperienza delle persone.
Sono le linee di confine tra rurale e moderno che oggi sono saltate, in cui il mulino diviene innovazione e la memoria letteratura. In un mondo globale che, come lo intendeva Kapuściński, è fatto soltanto di «svariate province».