Nella forza inaddomesticata dei corpi e delle parole delle donne
NARRAZIONI «La furia», un libro di Alessandra Carnaroli pubblicato da Solferino
NARRAZIONI «La furia», un libro di Alessandra Carnaroli pubblicato da Solferino
Sono delle Furie le donne protagoniste del libro della poeta Alessandra Carnaroli, dal titolo appunto La furia, edito da Solferino (pp. 240, euro 16,50) nella collana i Pavoni diretta da Teresa Ciabatti. Per raccontarle Carnaroli ha scelto la prosa, sulle note di Furia a cavallo del West, cantata da Mal alla fine degli anni Settanta, i cui versi titolano la seconda e terza parte del testo, oltre a comparire tra le righe dell’esergo – «sono la furia del west e bevo solo caffè così mantengo il mio pelo più nero che c’è/ cantavo da bambina piccolina mi davo le pacche sul sedere partivo come un razzo missile». Come missili precipitano furiose le parole sulla pagina, e allora salta tutto: le maiuscole, la punteggiatura, i tempi verbali; i discorsi delle protagoniste, zeppi di anacoluti, sono lampi di pensiero senza mediazioni linguistiche e soprattutto senza censura.
Nei suoi versi, Carnaroli ci aveva già abituato alla ferocia, con la differenza che qui la prosa è imbevuta di realtà come una spugna, la pagina si riempie fino a scoppiare: la pienezza è voluta, l’intento mimetico di registrare la realtà risponde a una scelta stilistica e politica (resistere alla violenza del reale inscenandolo); e se questa scelta rischia talvolta di saturare la prosa, vero è che basta un a capo per ritrovare la potenza del verso, come nelle parole della «madre del mostro»: «io donna nella neve attendo/ che mio figlio mi salti addosso/ e rientri/ dal buco/ come ti ho fatto/ ti rimangio/ bestia».
SI PROVA molta compassione per il destino di queste donne, madri che non si aspettavano che la pancia crescesse così in fretta e che toccano le figlie solo con gli schiaffi, o le fanno volare dalla finestra. Sono figlie che volevano fare le geometre e le poetesse perché s’intendono «un po’ delle cose dritte o storte nelle case e nella vita», che ci provano a mangiare in modo corretto, ma alla fine preferiscono digiunare, perché poi non c’è da preoccuparsi: «di fame non si muore ma al limite si scompare».
All’inizio del libro a parlare sono ventisette donne, e ventisette i monologhi in cui si raccontano; tutte chiamate con lo stesso nome, in minuscolo mirande; figure della sofferenza femminile esibite, nude («quella volta che anche la cuccarini era nuda sul palco» è il sottotitolo di questa prima parte) le mirande sono costantemente nel mirino dello sguardo maschile, come suggerisce il loro nome: «millenni di maschi dalla clava in poi, dalla lava che scola dallo scroto: sopravvivenza la definirei, stimolo alla riproduzione, sopravvivenza della specie, della speme, dello sperma che deve andare a segno sempre, fosse mutande il centro o donna», e bersaglio prediletto, come si legge nella seconda e terza parte, di tutte le campagne: «te lo hanno raccontata da piccola i tuoi genitori di gesù, il presepe la capanna maria che era vergine e non conosceva uomo eppure ha accettato la gravidanza, ricordi questa bellissima storia di amore e accettazione?».
ALESSANDRA CARNAROLI porta in scena il corpo smembrato delle donne, in particolar modo il corpo materno, intoccabile e insieme perennemente violato. Sulla maternità soprattutto battono la lingua e la riflessione di Carnaroli: «Lo devono scrivere sul muro delle scuole dei bambini lo devono scrivere che si vede anche da lontano se passi di sfuggita con la spesa devono scrivere chiaro e tondo: prima di diventare una brava madre devi faticare molto».
Le voci si moltiplicano, ma sono condannate come quella di Eco alla dispersione, e alla solitudine: la coralità è impossibile, le furie di Carnaroli restano monadi. Nello sfondo, come dopo un naufragio, sopravvivono gli oggetti di un quotidiano soffocante: le caramelle Rossana, il vasetto del Fruttolo, la maglia Liabel, le sorprese Kinder, lo stracchino Nonno Nanni; tutti oggetti de-relitti, che non sanno essere più nemmeno contundenti come invece avveniva in 50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti (Einaudi, 2021).
A chi legge, però, è data la possibilità di ricomporre i tasselli, ritrovare il sincrono, accogliere i corpi e le voci con uno sguardo che non condanna, ma sia capace di ascoltare generosamente la testimonianza di queste donne. Solo in questo modo per Carnaroli è possibile ripensare il discorso sul materno, e più in generale sul corpo delle donne.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento