Si presenta oggi a Milano al Piccolo Teatro (ore 17,30) il libro «Sguardi sul teatro contemporaneo» di Fabio Francione (edito da Scheiwiller), conversazioni con maestri della scena «che non disdegnano di problematizzare le nuove urgenze quotidiane»: Celestini, Popolizio, Ariette, Cuscunà, Castellucci, Tè, Punzo, Anagoor, Forte, Rambert, Spregelburd, Rodrigues, Mirò, lacasadargilla, ArchivioZeta, Eugenio Barba. La scelta dei nomi (la scomparsa di Peter Brooks ha eliminato l’ideale incipit), come si dice nell’introduzione, viene «a mostrare quanto abbia in pancia il teatro italiano anche nelle sue istanze più militanti, sociali, civili e politiche e di come queste siano al passo con le più avanzate drammaturgie europee e mondiali». Durante la presentazione del libro Francione dialogherà con Lisa Ferlazzo Natoli, la regista de lacasadargilla di cui anticipiamo l’incipit della conversazione contenuta nel libro.

Il nucleo familiare è spesso la regione in cui operiamo come una lente, un estensore, il germe e la forma drammaturgica esemplare per parlare del Fuori. E c’è poi sempre una riflessione intorno al tempo, tempo espanso, piegato, frastagliato in cui anche la scrittura si muove, non può che muoversi avanti e indietro. Il tempo come un liquido amniotico in cui siamo immersi, come linguaggio e sapere, dimenticanza e leitmotiv involontario.
Com’è nata l’idea di fondare un collettivo come lacasadargilla che, a distanza di anni dai suoi inizi, conserva ancor oggi una sua originale unicità nel panorama teatrale italiano, soprattutto nell’affrontare le urgenze ed emergenze del mondo contemporaneo, flagellato in questi ultimi due anni e mezzo dalla pandemia, dall’inesorabile incedere dei cambiamenti climatici e ora dalla guerra russo-ucraina, che sembra essere inconciliabile con il sostanziale benessere dell’Occidente?

La domanda mi consente, da questo momento in poi – relativamente a lacasadargilla –, di usare il pronome personale singolare o plurale, indistintamente e indiscriminatamente, per riferirmi al pensiero di quella che un’amica ha chiamato, riferendosi a noi, una specie di «intelligenza collettiva». Per darle una forma visibile, esistente in natura e, se ci penso ora, strettamente collegata a tante matrici del nostro lavoro, gioco con l’immagine di un polpo con i suoi circa cinquecento milioni di neuroni e il sistema nervoso distribuito in tutto il corpo, che ce lo fanno immaginare ovunque e in nessun luogo, un piccolo animale-città. Un organismo del genere, pur nella forma imperfetta ed estremamente semplificata che è lacasadargilla, non nasce da un’idea, piuttosto si forma nel tempo da una postura che sta a metà tra il desiderio e un inevitabile tendere del pensiero verso qualcosa che ha intravisto, che è stato lasciato come impressione, psichica, artistica, politica, come tentativo e pratica, da altri prima di noi. E non riguarda solo le storie teatrali, gli artisti e i gruppi che ci hanno preceduto, ma ha a che fare con ogni scrittura che amiamo, che ci ha letteralmente segnati – scrittura intesa in senso ampio, barthesiano quindi –, con ogni oggetto artistico o riflessivo che è tale anche perché ci ha mostrato una forma temporanea di quella cosa impossibile che è il reale e ce l’ha lasciata da indagare, ricostruire, ridisegnare. Quindi potremmo dire che lacasadargilla ha trovato una sua andatura nel corso degli anni, ma è stato chiaro dagli inizi che non ci interessava quella classica, seppure assolutamente onorevole, della compagnia teatrale, perché non avrebbe potuto contenere i nostri desideri: sapevamo che in quel luogo ci avremmo passato la più parte della nostra vita. Per questo, forse, quelle che chiami emergenze, urgenze del mondo contemporaneo hanno continuato a rilasciare un qualcosa all’interno del nostro operare che quasi coincide con le nostre vite. Se immagino una carrellata, nel Lear di Edward Bond (produzione Teatro di Roma e lacasadargilla) la guerra come assedio dell’anima, la realtà come un rébus grandeur nature, la violenza e i muri come strumento di controllo sui confini e sulle relazioni; in When the Rain Stops Falling di Andrew Bovell (produzione Emilia Romagna Teatro/ERT, coproduzione Teatro di Roma, TeatroDue di Parma) le eredità che riceviamo e consegniamo in un grande viaggio genealogico sulla conoscenza e sul lasciare andare, attraverso il tempo inteso come kairos e come intreccio tra meteorologia e storia; in L’amore del cuore di Churchill (produzione Teatro Vascello/La Fabbrica dell’Attore e lacasadargilla) il linguaggio che si spinge fino a un vero e proprio sabotaggio, della parola, delle relazioni, del teatro stesso e dell’intero sistema di segni attraverso la cui mediazione diamo senso al mondo; in IF/Invasioni (dal) Futuro (Estate Romana, produzione lacasadargilla) e in Uno spettacolo per chi vive in tempi di estinzione (produzione Piccolo Teatro di Milano) il mondo senza noi, i legami interspecie, le estinzioni biologiche e sociali e quel qualcosa di non umano che ci ri-guarda e ci sopravanza. Il nucleo familiare è spesso la regione in cui operiamo come una lente, un estensore, il germe e la forma drammaturgica esemplare per parlare del Fuori. E c’è poi sempre una riflessione intorno al tempo, tempo espanso, piegato, frastagliato in cui anche la scrittura si muove, non può che muoversi avanti e indietro. Il tempo come un liquido amniotico in cui siamo immersi, come linguaggio e sapere, dimenticanza e leitmotiv involontario. Dunque è inevitabile che i progetti teatrali che realizziamo, essendo la misura di un ragionamento esteso e collettivo, si riflettano in un ragionamento economico, produttivo e discorsivo, e abbiano il loro corrispettivo artistico e concreto nella composizione di un ampio ensemble di compagni di strada. Infatti di When the Rain Stops Falling Andrew Bovell dice: «Io non scrivo mai per o di un protagonista, ma sempre di una piccola collettività, in cui tutte le voci» – asimmetriche, non pacificate, contraddittorie, dico io – «hanno uguale risonanza».

E come si situa all’interno del sistema teatrale italiano?
Non saprei bene come rispondere a questa domanda, perché il situarsi attiene a un tempo storico, a quel sistema complesso che è il Paese e di cui il sistema teatrale è solo una evidente ricaduta. Quindi dovrebbe, in futuro, dirlo qualcun altro per noi.

In ogni modo credo che, proprio in virtù di quella nostra matrice concreta e riflessiva, abbiamo sempre cercato di muoverci in una molteplicità di habitat, attraversando alleanze ed ecosistemi teatrali molto diversi tra loro, riuscendo a conservare una decisa autonomia artistica e un andamento – si potrebbe dire nei termini della fisica – integrale e discreto. Questo è accaduto perché, da collettivo indipendente, siamo spesso stati coproduttori dei nostri spettacoli assieme a certi Teatri Nazionali e TRIC (Teatri di rilevante interesse culturale), a istituzioni, spazi indipendenti e festival; perché costruiamo ogni ragionamento passo passo con i nostri partner d’elezione, ma abbiamo, per esempio, sempre scelto di acquisire noi i diritti dei testi che desideriamo mettere in scena; perché ci siamo presi l’onere e l’onore d’essere ideatori, e in alcuni casi produttori esecutivi dei progetti intesi nel loro insieme, non solo degli spettacoli; per la continua relazione intessuta con territori, antropologie e architetture; perché non accettiamo progetti il cui senso, o anche solo l’occasione per imparare, non ci sia più che evidente. (…)