Un anno fa circa, l’editore romano Giulio Perrone ha dato alle stampe un agile saggio di Valerio Aiolli dentro un’originale collana sui luoghi degli scrittori, giunta ormai a una cinquantina di titoli l’ultimo dei quali è questo di Aiolli, La Firenze di Vasco Pratolini (pp. 106, euro 16). Se ne scrivo solo ora è perché di Pratolini ho parlato di recente con alcuni degli amici di infanzia e adolescenza sopravvissuti agli anni, cresciuti come me negli anni post-bellici in un quartiere di case popolari di una cittadina umbra. Tra loro io ero l’unico accanito lettore, l’unico che comprasse qualche libro grazie alla paghetta che mi dava mio padre per i pomeriggi in cui lo aiutavo nella sua bottega di «meccanico ciclista».

I miei amici si fidavano del mio giudizio e qualche libro l’hanno letto grazie a me (e ricordo ancora lo stupore di Gigino, che già lavorava da aiuto-fornaio, subito comunicato alla banda, quando vide scritta nero su bianco, in un racconto di Pavese, la parola «cazzo»). I romanzi che essi più amarono erano quelli di Vasco Pratolini, a partire dalle Cronache di poveri amanti ma entusiasmandosi soprattutto per Il quartiere perché, dicevano, «sembra che parli di noi». Tanti anni dopo diventai amico di Vasco e di Cecilia Pratolini grazie alla mediazione di Romano e Maria Bilenchi, due coppie indimenticabili. E il saggio «municipale» del bravo Aiolli mi ha riportato a esperienze e incontri lontani, nella Firenze che ben conoscevo anche se i Pratolini li conobbi a Roma, poco tempo dopo aver conosciuto i Bilenchi. Da ragazzo, mi aveva sconcertato davvero molto l’ostilità con cui certa critica iper-comunista (non tutta, però) accolse Metello, il romanzo che apriva il breve ciclo di Una storia italiana, storia di un operaio che diventa un militante socialista.

L’accusa di «populismo» sembrò, a me adolescente di estrazione proletaria, incomprensibile. Avevo letto molti romanzi scritti tra Otto e Novecento in cui il protagonista, di fronte alle prove della vita e alle ingiustizie del dominio borghese, «prendeva coscienza» del sistema classista in cui viveva e diventava «un compagno». Da Victor Hugo a Gorkij, ma anche dai Promessi sposi fino a tanti romanzi partigiani. L’impressione che ebbi allora dai detrattori di Metello – ma ero davvero poco più che un ragazzo – fu che le loro accuse lanciate a proposito e a sproposito contro alcuni dei nostri maggiori narratori e narratrici del dopoguerra e del «miracolo economico», la loro idealizzazione di una (rarissima) letteratura alto-borghese, anzi alto-borghese e non sia mai piccolo-borghese, mi sembravano celare un classismo di nuovo conio, appunto piccolo-borghese . Ma, diciamolo, se Vogliamo tutto di Balestrini qualche anno dopo ci piacque molto anche quello, non era perché narrava ancora una volta la «presa di coscienza» dentro le lotte operaie da parte di un giovane immigrato dal Sud a Torino, nel cuore della Fiat.

Diventare «un compagno» significava moltissimo, allora, anche oltre le divisioni nella sinistra; e mi ha sempre commosso che la parola «compagno», che ho sentito usare tra loro anche tra rivali politici di diverse idealità ma pur dentro la sinistra, non riguardasse solo comunisti e socialisti, ma anche, per esempio, certi cattolici e tanti repubblicani. Ho sentito, proprio nella Firenze di Pratolini, Bilenchi chiamare compagno il sindaco La Pira, e quello rispondergli dandogli del «compagno». E la parola dovrebbe essere ancora sacra, per tutti coloro che non accettano le ingiustizie dello stato di cose presente e credono e lottano per una causa comune, e in definitiva per il «socialismo», pur se diversamente inteso. E certamente non per un regime dove qualcuno, ci ricordò Orwell, era «più compagno» di altri.

Tornando al libro di Aiolli, fiorentino classe ’61, egli non ha vissuto la Firenze di Pratolini ma ne ha saputo coglierne gli umori e le passioni grazie ai romanzi, primi fra tutti quelli su via del Corno e sul quartiere di Santa Croce. Insisto: è proprio Il quartiere il suo romanzo più bello e che consiglierei di leggere o rileggere oggi per primo tra tutti i suoi, una storia di adolescenze che «prendono coscienza» delle ingiustizie della società ma anche dei valori dell’amicizia, della solidarietà e organizzazione di classe, di una solidarietà «organizzata» (e potremmo anche dire, perché no?, la sinistra e il partito) che va molto oltre i propri i luoghi e il proprio tempo.