Di ritorno da un viaggio in America Latina, Guido Piovene scrisse, in un lungo reportage per la «Stampa»: «Argentina, Perù: due mondi. L’Argentina mi ha suggerito spesso una parola, ‘metafisico’. Sul Perù invece incombono lo storico e il leggendario, il folclore, il colore locale, su uno sfondo di natura tragica. L’Argentina porta a un’arte di idee e di fantasia. Il Perù può produrre solo un’arte di ispirazione indigena, nazional-popolare, storie di selve e di montagne. L’Argentina è leggera, aerea, distaccata; il Perù denso, teso, affondato nei suoi ricordi».

Era il 1966 e Piovene scopriva il Perù indio, lacerato, intimamente violento che José María Arguedas e Mario Vargas Llosa raccontavano all’epoca nei loro romanzi: un mondo lontano e dolente, del quale il viaggiatore intuiva la magnificenza e la miseria. A dispetto del tempo trascorso, gli stessi elementi si ritrovano nella narrativa peruviana di oggi: la bella antologia Lejos Sedici racconti dal Perú (a cura di Maria Cristina Secci, Gran Vía, pp. 291, € 16,00) – quinta uscita della collana «Dédalos», che ha già ospitato raccolte di racconti da Cuba, Cile, Bolivia, e Colombia – ne è un esempio. Il volume riunisce voci di autori originali e brillanti, in gran parte ancora poco noti in Italia e mai tradotti prima, con la sola eccezione di Santiago Roncagliolo e Gabriela Wiener. Arrivano nella nostra lingua per la prima volta, tra gli altri, Juan Manuel Robles, Claudia Ulloa Donoso, e Carlos Yushimito, che hanno già ricevuto riconoscimenti internazionali di un certo prestigio.

Nati negli anni Settanta e Ottanta, per varie ragioni migranti e per lo più residenti al di fuori dei confini del Perù – la patria smarrita ma sempre presente in controluce – gli autori di questi racconti si cimentano con un vasto repertorio di generi, dall’autofinzione alla fantascienza, e propongono soluzioni formali talvolta audaci. Una attitudine che libera la narrativa peruviana dal giogo del folclore e del realismo cui sembrava essere stata relegata mezzo secolo fa, e si richiama direttamente, come scriveva Piovene delle lettere argentine, a «un’arte di idee e di fantasia».

Appartiene a questa tendenza sperimentale il racconto che apre il volume, «Tutto quel che ho lo porto con me» di Katya Adaui, sorta di autobiografia famigliare in frammenti, narrata a ritroso, tutta giocata su ellissi, allusioni e silenzi; e ancora «Quelle onde» di Claudia Salazar Jiménez, racconto a due voci al confine del fantastico, costruito sulla giustapposizione narrativa del presente e del passato, che si mantengono in un suggestivo equilibrio sino a quando il passato irrompe come un’onda nel presente, e inevitabilmente lo travolge; in «Costellazione nostalgia» di Juan Manuel Robles il lettore viene proiettato in un futuro nel quale si rende disponibile al cliente un servizio di cancellazione dei ricordi, che viene poi utilizzato anche dal governo per rimuovere, dalla memoria dei cittadini, qualsiasi traccia di efferati crimini di guerra.

In bilico tra vissuto individuale e storia collettiva, evocata tramite rimandi a episodi bui di un recente e irrisolto passato, oppure attraverso riferimenti a personaggi politici decisivi nella costituzione del Perù contemporaneo («L’arte antica della falconeria» di Paul Baudry è dedicato a Victor Raúl Haya de la Torre, leader dell’Alleanza Popolare Repubblicana Americana) i racconti di Lejos esibiscono le ferite aperte di una società divisa da contrasti etnici e di classe, fomentati da un ceto politico che, come ricorda Riccardo Badini nella postfazione, «dagli anni Ottanta ha lasciato il paese, ricchissimo di materie prime, in balìa del libero mercato».

Nelle lacerazioni sociali e personali provocate da questi contrasti si trova uno dei temi centrali dell’antologia, il cui leitmotiv – nonostante la varietà dei registri e delle voci – è riassumibile nella «distanza» alla quale si riferisce il titolo. «Lejos», infatti, in spagnolo significa «lontano», «remoto nello spazio o nel tempo». La posizione di lontananza geografica dalla quale sono scritti molti dei testi non va intesa soltanto come condizione interiore, nel segno della perdita e della nostalgia, ma piuttosto come dislocazione e «riposizionamento» identitario, che consente di rivedere se stessi, il legame con la propria storia e il proprio paese, da una prospettiva inedita.