Nella crisi in Myanmar spunta una pallottola italiana
Dopo il golpe dei militari L'azienda produttrice smentisce di aver mai venduto armi al Myanmar, paese verso il quale dal 1991 esiste un embargo alla vendita di armi e munizioni
Dopo il golpe dei militari L'azienda produttrice smentisce di aver mai venduto armi al Myanmar, paese verso il quale dal 1991 esiste un embargo alla vendita di armi e munizioni
Spunta una pallottola italiana nella tragica vicenda birmana. Quel che resta di una cartuccia sparata il 3 marzo – secondo la ricostruzione del magazine locale Irrawaddy – nel giorno in cui avviene un pestaggio sistematico di persone fatte uscire a forza da un’ambulanza. Una sequenza di immagini già postate su fb giorni fa, testimonianza di una violenza che non risparmia nulla e nessuno.
Ma il ritrovamento del reperto pone altri problemi per un Paese che, in quanto Italia e in quanto membro Ue, ha l’assoluto divieto di esportare armi in Myanmar, Paese più volte sottoposto a embargo (l’ultima volta per il dossier Rohingya) e per cui si chiede ora un divieto globale su ogni tipo di arma/munizione. La Cheddite di Livorno, una storia nella produzione di cartucce da caccia e da tiro, smentisce di aver mai venduto ai birmani. Ma il mondo delle armi è anche quello di pelose triangolazioni magari all’insaputa del produttore originario.
«Da un esame delle Relazioni governative sull’export di armi militari e dei dati ISTAT sul commercio estero non risultano dal 1990 al settembre scorso esportazioni dall’Italia al Myanmar di “armi munizioni” – conferma Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio Opal di Brescia – e la Ue ha stabilito dal luglio del 1991 diverse forme di divieto ed embargo su armi e munizioni verso il Myanmar. Considerato che a Yangon sono stati trovati bossoli di produzione italiana che sarebbero stati sparati dalle forze di sicurezza e alla luce dell’embargo si rende necessario, da parte delle autorità italiane, un attento esame delle esportazioni di munizioni effettuate dalla Cheddite Italy S.r.l. per verificare se siano state in qualche modo esportate illegalmente».
Una vicenda che proietta anche l’Italia sul grande schermo della tragedia birmana. Come ci siamo mossi?
Dopo un un tweet di poche righe il 1 e il 20 febbraio – ma avendo pur sempre partecipato alle iniziative Ue sia localmente sia in sede internazionale – lunedi scorso, dopo una “domenica di sangue”, il ministro Di Maio prende un’iniziativa bilaterale convocando alla Farnesina l’ambasciatrice birmana a Roma. Un passo formali nemmeno tanto “leggeri” e significativo. Com’è significativo aver sottoscritto e consegnato a Yangon le lettere che una dozzina di missioni diplomatiche avevano scritto anche prima del golpe quando l’atmosfera si stava scaldando.
L’Italia ha rapporti con il Myanmar, un hub del tessile e Paese interessante per aziende di costruzione o telefoniche. Roma pensa anzi di farne la sede della Cooperazione bilaterale anche per Vietnam, Laos e Cambogia. In Myanmar inoltre sono attive diverse Ong italiane: Icei, Asia, Terres des Hommes Italia, Cesvi, Oikos. Sono preoccupate perché il loro lavoro, spesso in campo agricolo-ambientale, è anche sociale, un appoggio diretto alla popolazione e quindi alla società civile birmana ora sotto schiaffo.
Cosa succederebbe se l’Italia congelasse gli aiuti che, in gran parte finanziano, le attività di cooperazione? Significherebbe tagliare afflusso di denaro a centinaia di birmani in uno dei momenti più difficili. «Seguo con preoccupazione e angoscia quanto avviene in Myanmar, dice Alfredo Somoza di Icei: siamo presenti dal 2017, proprio per scommettere su uno dei settori che soltanto in democrazia si potevano sviluppare: turismo comunitario. Lavoriamo con donne e giovani formati per arricchire un’economia locale di pesca e agricoltura con un prodotto complesso come quello turistico. Non soltanto possibilità di impiego qualificato, ma anche apertura al mondo e scambi dopo decenni di chiusure».
La conclusione è amara: «Oggi ci troviamo in una situazione precaria, con il progetto che formalmente è aperto ma nell’incertezza del giorno per giorno dovuto alle massicce proteste (continuate anche ieri ndr) e alla crescente repressione. I giovani soprattutto non intendono tornare al passato della dittatura. Tutto il lavoro che la cooperazione internazionale ha fatto in questi anni, per consolidare gli spazi democratici così difficilmente ceduti dai militari, rischia di essere vanificato. L’auspicio è che si trovi una mediazione che faccia cessare le violenze, ma che tuteli però anzitutto i diritti dei cittadini birmani espressi con il voto. Noi resisteremo finché sarà possibile, come ci chiedono i nostri partner e le tante persone che hanno visto una possibilità di crescita tramite i nostri progetti».
In questa situazione molto difficile, il nuovo ministro birmano competente ha inviato una lettera a tutte le associazioni chiedendo una lista dei progetti e degli impiegati. Tutti hanno temporeggiato, indicazione che viene anche dalla Farnesina. Ma per quanto? E infine, che fare? Stare con la protesta e gettare da parte una neutralità pelosa, congelare le attività tutelando gli stipendi, non schierarsi sperando che passi? Neutralità o solidarietà? Un dilemma che le varie Ong (italiane e non) hanno posto a Hugo Slim, specializzato in etica della guerra e aiuti umanitari.
«La mia raccomandazione – ha scritto – sarebbe quella di prendere una posizione. Cercare di falsificarla potrebbe essere ricordato come codardia morale o un debole neutralismo che è distinto dalla neutralità di principio o da una solidarietà di principio». Scelte comunque difficili e su cui va sgombrata qualsiasi ombra. Specie se a farla è il bossolo vuoto di un proiettile italiano.
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