Le vittime dei disastri ambientali, dell’inquinamento da amianto, da Pfas, da Cvm, delle stragi industriali, delle morti sul lavoro e del profitto a tutti i costi, chiedono che i propri diritti e i diritti della natura vengano riconosciuti nella Costituzione. La proposta viene dal coordinamento Noi 9 ottobre – è la data della strage della diga del Vajont del 1963, allora le vittime furono oltre 2000 – ed è stata formulata proprio a Longarone, durante gli Stati generali dei diritti delle vittime, organizzati alla vigilia della Notte Bianca della memoria del Vajont, con la partecipazione di giuristi, magistrati e avvocati.

DEL COORDINAMENTO fanno parte i comitati di vittime di tanti stragi che hanno segnato la storia italiana degli ultimi decenni: dal Vajont alla Val di Stava, dalle vittime dell’asbestosi per esposizione all’amianto che causa tuttora 1500 morti all’anno, fino alle stragi causate da mancanza di manutenzione o osservanza delle norme di sicurezza e anti-sismiche (ponte Morandi, stragi di Viareggio, Casalecchio di Reno, Cavalese, Thyssen-Krupp, torre dei piloti di Genova, terremoti, ecc., l’elenco non è purtroppo esaustivo), fino alla strage del Covid.

A TENERE INSIEME REALTA’ TANTO DIVERSE, pur accomunate dallo stesso dolore e dal bisogno di verità, è il lavoro della giornalista Lucia Vastano che da vent’anni si è messa al servizio di queste comunità ferite per raccontarne le storie (sta per uscire il suo ultimo libro Papaveri rossi. Noi vittime del profitto, ed. La Vela) e soprattutto «per fare rete tra le associazioni di vittime che non possono condurre le loro battaglie da sole, per coinvolgere la classe politica, per recuperare la parte dormiente della società civile, per cambiare linguaggio perché non si dica più che queste stragi sono stati incidenti o calamità, e per ottenere, insieme alla verità, più prevenzione in futuro», dice la Vastano.

PERCHE’ E’ FONDAMENTALE INSERIRE i diritti delle vittime nella Costituzione lo ha spiegato l’ex-magistrato ed ex-senatore Felice Casson: «Nel codice di procedura penale non c’è un vero riconoscimento del ruolo della vittima nel processo dove le parti sono solo il pubblico ministero e la difesa. Questo ha comportato un effetto negativo sulla cultura della magistratura. Certo, l’inserimento in Costituzione di per sé non basta, perché servirà anche una volontà culturale ed etica per accogliere la parte offesa, ma almeno costringerebbe a dare un’interpretazione costituzionalmente rilevante della norma. Sarebbe inoltre un messaggio politico importante perché, dopo tante lacrime di coccodrillo, di fronte ad eventi così gravi, si muova davvero qualcosa e non ci siano magistrati portati a pensare: ma chi me lo fa fare?».

LA RIFORMA COSTITUZIONALE dello scorso febbraio ha inserito un riferimento alla tutela dell’ambiente nell’articolo 9, mentre l’articolo 41 ora sancisce che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in modo da recare danno all’ambiente e alla salute, «un riferimento etico-filosofico importante – ha sottolineato Casson – ma il riconoscimento delle vittime non c’è».

QUELLO CHE SUCCEDE E’ CHE LE VITTIME non sono tutte uguali, né sotto il profilo degli indennizzi né dal punto di vista della protezione penale. Secondo Marco Bouchard, ex magistrato e presidente della rete Dafne per l’assistenza alle vittime di reato, «nei confronti delle vittime ci vorrebbe un’attenzione universale, mentre oggi ci sono grandi differenze: le vittime di reato sono state classificate e qualche volta protette in base alle emergenze che si sono rappresentate nella storia italiana. Oggi si fa giustamente grande attenzione alle violenze sessuali, domestiche, gli uomini maltrattanti sono oggetto di misure di prevenzione, mentre per le vittime del lavoro o della mancata protezione dell’ambiente c’è tutto un altro atteggiamento».

A QUESTO PROPOSITO, TRA LE RICHIESTE del coordinamento Noi 9 ottobre c’è anche l’istituzione di un Dipartimento presso la Presidenza del Consiglio per il coordinamento delle diverse competenze sui diritti sociali delle vittime di reato, oggi ripartite tra diversi organi dello Stato (Presidenza del Consiglio, ministeri di Giustizia, Interno, Salute e Regioni), che comunicano poco tra loro e determinano disparità e discriminazioni inaccettabili anche nella ripartizione dei fondi.

QUANTO AI DIRITTI DELLA NATURA, denuncia il coordinamento, «la sua tutela viene interpretata come salvaguardia di interessi personali e non come difesa della vita, ed è presa in considerazione solo per il risarcimento danni e non come violazione dei diritti della natura stessa causati da disboscamento, inquinamento, cementificazione e quant’altro».

A MINARE I GIA’ SCARSI DIRITTI delle vittime si è aggiunta la Riforma Cartabia, che ha introdotto l’istituto dell’improcedibilità se, dopo la sentenza di primo grado, non si arriva entro due anni all’Appello e un anno in Cassazione. «Questo è uno degli aspetti più gravi per le vittime – ha puntualizzato Luca Masera, professore di Diritto penale a Brescia – non solo perché lo Stato dimostra di non avere interesse a perseguire il colpevole, ma anche perché, se si arriva all’improcedibilità del processo penale, cessa anche l’azione civile ed è necessario ricominciare tutto da capo per ottenere un risarcimento in sede civile». Per processi particolarmente complessi c’è la possibilità di ottenere delle proroghe «ma la valutazione diventa troppo discrezionale, e il rischio di impunità è reale», commenta Bouchard.

SE LE PERSONE OFFESE DA REATO hanno soprattutto bisogno di giustizia e verità dei fatti, per come sono riconosciute oggi possono solo richiedere un risarcimento danni costituendosi parte civile, con tutto quello che comporta imbarcarsi in un iter processuale che può durare un decennio in termini di spese processuali, di impegno personale e stress emotivo. Per questo, tra le richieste c’è anche il riconoscimento di un diritto autonomo alla prova, a richiedere l’incidente probatorio e all’impugnazione senza doversi necessariamente costituire parte civile.

LE ASSOCIAZIONI DELLE VITTIME denunciano di sentirsi abbandonate dallo Stato anche perché in Italia mancano completamente servizi pubblici e specialistici di assistenza loro dedicati, come il diritto all’informazione, al sostegno emotivo, alla protezione, come prescritti dalla Direttiva europea 2012/29. L’unica realtà esistente è la rete Dafne, nata nel 2008 a Torino e poi sviluppatasi a macchia di leopardo e sostenuta perlopiù dal volontariato, essenzialmente grazie al supporto di alcune fondazioni, ma che non è in grado di offrire un servizio universale. Solo dal 2020 la legge di bilancio ha stanziato fondi per alcuni servizi di assistenza, ma molto ridotti.

«LA QUESTIONE CHE PONGONO LE VITTIME è anche democratica – spiega Bouchard – Le vittime vengono spesso strumentalizzate dalle parti del processo per ottenere pene più elevate o per ridurre le garanzie, mentre quello di cui hanno bisogno è attenzione e assistenza, che non trovano se non privatamente. Diversa è la situazione in altri paesi europei, molto più evoluti sotto questo aspetto, soprattutto la Francia dove questi servizi pubblici sono attivi da 30 anni. Mi ha molto colpito la vicenda della strage del Bataclan di Parigi, per come sono state condotte le indagini e il processo. Le oltre 3 mila vittime sono state seguite fin dai primi istanti dopo la tragedia con attenzioni che noi in Italia non riusciamo nemmeno ad immaginare. E alla fine quasi tutte le associazioni delle vittime si sono dette soddisfatte. Io penso che questo tipo di servizi siano fondamentali per uno Stato che si affaccia alla modernità e che si rende conto che le vittime non sono solo strumenti per accertare la verità dei fatti, ma persone in carne ed ossa».