Ogni regista ha una sua idea di spazio, inteso come porzione di realtà che decide di far abitare dai suoi personaggi/interpreti. Ma questo orizzonte di mondo è condizionato da una cornice con cui il cineasta sceglie di ritagliare l’azione che costruisce sul set, producendo sempre e inevitabilmente un fuori campo. Ciò che resta escluso dal nostro sguardo spesso è ancora più forte di ciò che vediamo sullo schermo e, in ogni caso, instaura un rapporto dialettico con il cadrage. Che tipo di drammaturgia dello spazio instaura Martone nei suoi film? A quale categoria appartiene: a quella degli autori che risolvono il senso dell’opera nel campo o a quella dei registi che lavorano sul fuoricampo? Questa dicotomia è complicata (o forse persino superata e risolta) da un’altra: Martone nel suo cinema lavora spesso su due spazi, quello filmico e quello teatrale, creando significativi cortocircuiti, come nel caso di Teatro di guerra o di Qui rido io. Il fuoricampo diventa così dietro-le-quinte, lo spettacolo si mescola alle prove, la realtà convive con la rappresentazione, la scena sconfina nella città, gli esterni non sono che un prolungamento degli interni, secondo una logica che può implicare differenti livelli temporali, come ne L’amore molesto o in quelle opere “in costume” dove la dimensione del passato si relaziona con un discorso sullo spazio presente. […]

La prima sequenza del lungometraggio d’esordio di Martone, Morte di un matematico napoletano (1992), è ambientata nella sala d’attesa della stazione ferroviaria di Roma (non è specificato se Termini o Tiburtina). Ci troviamo nel 1959, anno in cui è nato il regista e in cui muore Renato Cacciopoli, personaggio reale cui si ispira la vicenda. E’ paradossale che nell’incipit non ci sia Napoli – vera protagonista del film – ma un non-luogo in cui il professore smaltisce una delle  sue sbornie. E’ uno dei numerosi spazi di transito che compaiono nell’immaginario cinematografico di Martone. Morte… è soprattutto opera di interni (il primo esterno compare dopo ben 25 minuti) e la Napoli che ci viene restituita è – almeno nella prima parte – silenziosa, semi-deserta, quasi metafisica, muta testimone delle flanerie del professore, delle sue derive psico-geografiche. Un’inquadratura ci mostra un muro imponente che occlude la vista di Palazzo Reale, negandoci così la Napoli da cartolina. Del resto è solo al trentaduesimo minuto che abbiamo una visione dall’alto in campo lungo della città, seguita dall’apparizione di un luogo riconoscibile come Castel dell’Ovo incorniciato dalla vetrata dell’albergo del lungomare di Chiaia. Martone si avvicina alla visione totale della città quasi con pudore. In questa città, fotografata in gran parte con un filtro giallognolo che ricorda le vecchie istantanee scolorite, non vediamo la folla (dopo un’ora ecco un via-vai di persone per pochi secondi), non ci sono scene di massa, forse anche per questioni economiche: tutto questo nelle opere In costume ha un costo, ma la limitazione può diventare scelta espressiva. 

In Morte… la Napoli diurna si alterna a quella notturna, con una dinamica di continuità che replica la contiguità tra interni ed esterni (il “basso” dei quartieri spagnoli è la tipologia abitativa che si presta meglio a questo stile di vita). […]  

L’unico momento di assembramento – che sembra fare da contraltare ai numerosi svuotamenti del film – è costituito dal funerale. Il cimitero è il luogo dove si concentra l’ultima parte di Morte… configurandosi come lo spazio dove i giudizi e i racconti sul defunto (comunista e matematico, uomo pubblico e privato) si incrociano e si sovrappongono generando tanti piccoli “fuori scena” rispetto al rito centrale della commemorazione. Ma è la coda ad essere ancor più significativa: il proprietario della casa dove abitava Caccioppoli fa considerazioni su come ristrutturarla e riaffittarla magari a una famiglia. L’ultima immagine ci mostra la poltrona vuota del professore accanto alla finestra. Un nuovo svuotamento suggella il film.

L’amore molesto (1995) […] inizia con un […] funerale, quello della madre della protagonista. Ma stavolta vediamo la celebrazione svolgersi per strada, in mezzo alla confusione. In questa Napoli contemporanea il traffico è un rumore di fondo naturale, così come la folla, la vicinanza tra le persone, il toccarsi, l’aggredirsi (sull’autobus di oggi così come sul tram di ieri). In questa città – che ci viene proposta nella sua struttura verticale, attraversata dalla funicolare – non è solo l’amore ad essere molesto ma, per estensione, lo stesso spazio urbano. Non sono dunque i corpi ad abitare la città ma è la città che abita i corpi, li invade letteralmente. Subito dopo le esequie, Delia osserva il rudere di un vecchio palazzo affiancato a un moderno viadotto in cemento armato: uno di quei contrasti tipici della metropoli partenopea, frutto di una selvaggia speculazione ben raccontata da Rosi nel suo Le mani sulla città. Il senso di straniamento rispetto a un luogo in cui non vive più da tempo, spinge la donna a riappropriarsi dello spazio fisico, parallelamente alla ricerca del trauma infantile che ne ha condizionato l’esistenza. 

Il doppio livello spazio-temporale su cui si articola il film, rende più complessa la visione della città, frutto di una comparazione tra passato e presente. E allora, se da un lato Napoli rappresenta l’orpello, il cliché da abbattere rispetto alla narrazione consolidata, dall’altro diventa dispositivo fantasmagorico che consente di attraversare lo spazio e il tempo, sovrapponendo più universi paralleli. Le case, qui e in Morte di un matematico napoletano, sono luoghi dove non si abita più, luoghi da cui traslocare, da sgomberare. […]  

Lo spazio de L’amore molesto è claustrofobico, in penombra, a partire dallo stesso abitacolo dell’ascensore, sospeso nel vuoto, dove Delia dialoga con la madre, come luogo dell’inconscio. Ma è tutta la scena nella tromba delle scale del palazzo di Amalia – richiamo alla tromba delle scale del passato, con Antonio Polledro bambino tenuto a testa in giù per i piedi dal padre di Delia – che rafforza il senso di oppressione avvertito dalla protagonista. Così come la sequenza del tentato stupro è ambientata in un altro spazio semioscuro: la sauna. E, subito dopo, la masturbazione praticata da Delia ad Antonio (come risarcimento della violenza inflittagli da suo padre decenni prima), avviene nella piscina, filmata non nella sua vastità ma come spazio angusto.  

Scuro è anche il traforo che conduce Delia al quartiere della sua infanzia e rappresenta una soglia di passaggio dal centro alla periferia, nonché dal presente al passato. Anche in un altro romanzo della Ferrante, L’amica geniale, il dispositivo urbanistico del tunnel assolve la funzione di separare lo spazio della borgata (violento ma protettivo) dove vivono le due protagoniste, dal resto del mondo (Napoli, l’ignoto…). E poi, nel finale del film, compare uno spazio ancor più tetro: l’“antro” dove vive Caserta, il sottoscala dove un tempo c’era il laboratorio di pasticceria in cui Delia è stata molestata. Ed è qui che riaffiora finalmente il trauma rimosso della bambina-donna. Subito dopo ecco Delia uscire dal “tunnel” e vedere Napoli in lontananza, dal treno, da una prospettiva luminosa, simbolo dell’avvenuta riconciliazione. […]

E il vulcano – presenza muta e minacciosa che incombe sulla città – è anche il luogo in cui si è rifugiato il boss de Il sindaco del rione Sanità (2019), tratto dalla pièce di Eduardo. Lo vediamo all’inizio stagliarsi con la sua sagoma scura in una visione notturna dall’alto della città partenopea che somiglia un po’ a Los Angeles. Dovendo adattare la vicenda camorristica ai giorni nostri, Martone sta molto attento a non cadere nell’iconografia della città criminale codificata dalla serie televisiva Gomorra, anche se il rap che accompagna le prime sequenze rimanda a quell’immaginario. La villa di Barracano – location principale di questo kammerspiel – non è arredata con il solito gusto kitsch, cliché dei malavitosi campani. Il regista conserva volutamente l’originale impostazione drammaturgica, ma innestandola nello spazio crudo e reale viene vissuto in modo da ottenere un contrasto interessante. L’uso della camera a mano produce un’instabilità dell’immagine che ha la funzione di neutralizzare la staticità del teatro.  

Infine, la pièce di Eduardo consente al regista di operare un movimento inverso a L’amore molesto: si parte da un luogo periferico, per poi terminare la vicenda nel cuore di Napoli, alla Sanità, dove si consuma l’ultimo atto di una tragedia che resta circoscritta nello spazio chiuso di due residenze, quella di campagna e quella di città. 

Ma tutto il quartiere della Sanità è protagonista dell’ultimo lungometraggio di Martone, Nostalgia, tratto dal romanzo omonimo di Ermanno Rea. Questo film sembra in qualche modo il pendant de L’amore molesto, pur completando una ideale trilogia composta da Il sindaco… e Qui rido io. Il ritorno di Felice nella sua città e nel suo rione – sospeso tra il suo passato di adolescente inquieto che lo porta alla delinquenza e il presente di una realtà divisa ancora tra le forze del bene quelle del male – è segnato profondamente dai vicoli, dalle salite, dalle piazze, dalle abitazioni della Sanità, a cominciare dalla chiesa barocca di Santa Maria della Sanità, luogo del riscatto sociale e culturale in cui opera il prete di strada don Luigi Rega, mediatore tra due mondi e anche tra due anime: quella di Felice e quella del suo doppelganger Oreste. Ancora una volta in Nostalgia gli esterni così come gli interni rivestono una funzione narrativa importante e riflettono gli stati d’animo dei personaggi: prima di essere lentamente risucchiato nel “borgo natio”, Felice alloggia nella stanza asettica di un grattacielo del Centro Direzionale, quella zona di Napoli che – sorta a metà degli anni ’90 – avrebbe dovuto rappresentare il futuro. Il basso senza luce dove è stata relegata sua madre, viene poi sostituito da un’abitazione con giardino piena di luce, da cui emerge tutta l’anima mediterranea di Napoli, riconciliando definitivamente il protagonista con la città, in un legame di continuità con il Cairo, dove ha vissuto negli ultimi decenni. L’ennesimo trasloco che troviamo in un film di Martone.

Oreste, il boss del quartiere, il “sindaco” di una Sanità che vuole mantenere il vecchio ordine costituito contro una Sanità che tenta di rinnovarsi, vive invece nella parte alta. E’ il signore nell’eremo da cui si domina tutta la situazione e, geograficamente, tutta la metropoli, raggiungibile dopo aver scalato la città verticale e dopo essersi addentrati in un labirinto inaccessibile ai più. Ma la difficoltà che Felice prova nel raggiungere Oreste è inversamente proporzionale alla facilità con la quale Oreste può scendere fino al cuore della Sanità per saldare tutti i conti con il fratello-traditore. Questa Napoli fatta di amore e violenza così straordinariamente ridisegnata da Martone è, dunque, città degli ossimori e delle inversioni. Nella parte alta (paradisiaca, piena di luce, caratterizzata da un panorama che ci risolleva dalle nefandezze del reale) abita il Male, mentre nella parte bassa (infernale, buia, notturna) trova la sua nuova casa il Bene che cerca la strada della rinascita in mezzo al degrado. Ma del resto Napoli è questa: inferno e paradiso indissolubilmente intrecciati. 

Napoli, sempre presente nel cinema di Martone, quanto alternata ad altri spazi urbani e altri luoghi anche extraurbani, diventa paradigma, aleph da cui osservare il mondo poiché, come ha affermato in modo molto chiaro lo stesso cineasta, forse smontando da cima a fondo questa mia analisi: “Non è tanto importante come il mondo vede Napoli, ma come tu da Napoli vedi il mondo. Non conta l’immagine di Napoli, conta Napoli”.