«Esponiti a sentire quel che i poveri sentono, / Scuotiti di dosso il superfluo e dallo a loro, / E mostra che i cieli son più giusti». Così, citando in epigrafe il Lear di Shakespeare, mentre recita il cerimoniale del suo spogliarsi di ogni avere, James Agee esordisce nella sua cronaca documentaria sulla Grande Depressione degli anni trenta. Nell’attesa che i tempi fossero «più giusti», viaggiando verso Sud egli poté constatare che le vaste campagne avevano sete e i contadini fame. Nel 1941, da quell’esperienza venne fuori un libro, composto da una breve narrazione di Agee, commissionata dalla rivista «Fortuny», e le fotografie «sociali» (o «straight photography») di Walker Evans. Nel loro rispettivo linguaggio, via via che proseguivano per strade polverose, scrittore e fotografo raggiunsero una crudezza impietosa di rappresentazione, pervenendo infine a uno spettacolo inquietante della vita dei fittavoli dell’Alabama, che Agee intervistava e Evans ritraeva.
Una realtà che scrittore e fotografo conoscevano per nascita (Agee era del Tennessee, Evans del Missouri), e quindi da tempi precedenti la catastrofe che aveva trasformato il Sud in un «Dust Bowl», conseguenza di un disastro ecologico e umano di immense proporzioni. Di quel disastro dà conto Sia lode ora a uomini di fama (prefazione di Luca Briasco, traduzione di Luca Fontana, il Saggiatore «La Cultura», pp. 516, € 25,00), già apparso in Italia nel 1994 e nel 2002 ma senza grandi riscontri. Fa piacere, pertanto, riaverlo tra le mani in un momento culturale come il nostro più dipendente dalla multimedialità e da nuovi disagi sociali interni e migratorî. E fa piacere rileggere – rivedendoli – le storie riguardanti gli «uomini di fama» di quei tempi: i diseredati della terra.

Scrittura alta, geniale, ellittica
Sì, ‘rivedendoli’: perché, se le fotografie hanno avuto fortuna e le conosciamo bene, il testo di Agee è stato dimenticato, un dettaglio che ci priva anche del piacere di una scrittura apparentemente demenziale ma alta, geniale, lirica, frammentata, ellittica, in uno stile che «a malapena si sarebbe detto novecentesco», osserva Evans in una sua nota, caratterizzato da una fosca «tinta elisabettiana», confluente spesso in esplosivi momenti «acidi» con punte comico-surrealiste. È il caso del pezzo sulle «galline», un brano virtuosistico, promosso ad allegoria e intriso di «stralunata fallacia patetica» (la pathetic fallacy).
A differenza di Evans, Agee morì giovane, lasciando qualche poesia, un paio di sceneggiature, pezzi sparsi di giornalismo e un solo magnifico romanzo autobiografico, Death in the Family, insignito del Pulitzer nel 1957, dopo la morte dell’autore avvenuta due anni prima all’età di quarantasei anni. Della sua fama, dunque, egli non godette. E questo è tanto più vero in quanto questa cronaca sui diseredati, bocciata da «Fortune», perché troppo cruda e poco rassicurante sulla via d’uscita dalla crisi, apparve in forma ridotta nel ’41. Fu solo quando un manoscritto più corposo venne ritrovato fra le carte di Agee, che si giunse infine alla resa pubblica di un suo lavoro più vasto, confluito poi nell’assemblaggio di scrittura (sua) e immagine (di Evans).
Uno dei problemi che bocciò il progetto originario riguardava la correttezza di dare in pasto ai lettori la disperazione degli abitanti del Sud. La questione dell’intrusione nel «dolore degli altri», come l’ha definita Susan Sontag, è un busillis che ha destato molto interesse nella seconda metà del Novecento, anche a livello teorico, un dibattimento vieppiù complicato dalla scoperta del «falso fotografico», di cui fu protagonista innocente soprattutto Robert Capa. Sul tema dell’indiscrezione si pensi, giusto per fare un paio di nomi eccellenti, a Sulla fotografia (1978) della stessa Sontag e a La camera chiara (1980) di Roland Barthes: «La società si adopera per far rinsavire la Fotografia, per temperare la follia che minaccia di esplodere in faccia a chi la guarda», avvertiva con acredine Barthes nel suo bellissimo e conturbante trattatello. Un monito da tenere a mente in qualsiasi reportage visivo e nel giornalismo in generale.
Agee pure non la pensava molto diversamente. «Sembra a me curioso, per non dire osceno e affatto terrificante – egli scriveva – se accade che un’associazione di esseri umani riuniti dal bisogno e dal caso, e a fini di profitto costituitisi in azienda, un organo di giornalismo, si metta a spiare nell’intimo le vite di un gruppo di esseri umani senza difesa e spaventosamente deprivati, una famiglia rurale indigente e ignorante, allo scopo di esibire la miseria, lo svantaggio e l’umiliazione di queste vite di fronte a un altro gruppo di esseri umani, nel nome della scienza, del ‘giornalismo onesto’ (qualunque cosa significhi un tal paradosso), dell’umanità, del coraggio sociale, e per denaro, e per farsi una reputazione di paladini e di imparziali, reputazione che, con le dovute abili riserve, è scambievole contro denaro in qualsiasi banca (e in politica contro voti, raccomandazioni, abramolincolismo ecc.); e che queste persone siano capaci …». Bravo chi riesce ad arrivare alla fine della frase. Ma, al di là delle idiosincrasie scrittorie di Agee, qui è la sostanza del problema, riproposta quarant’anni dopo da Sontag e Barthes, che conta e bisogna affrontare.

Struttura teatrale in tre libri/scene
Per quanto riguarda il resto della narrazione di Agee – che scivola in un fluire di parole arrabbiate, risentite, demolenti ogni atto visivo dell’occhio cronachistico/giornalistico eternante l’oggetto dell’inquadratura – occorre dimenticare questi scrupoli e leggere e vedere quel che accade di giorno in giorno (dal luglio all’agosto del 1936) nell’avventura raccontata.
Non a caso, Sia lode ora a uomini di fama è strutturato teatralmente con divisioni in tre libri/scene, nomi di luoghi e di protagonisti, il tutto corredato da didascalie che decodificano il contesto dei fittavoli e dei loro volti immoti (le smorfie, la mestizia, il sudiciume, la resistenza, il pudore) e della loro misera quotidianità (vestiti, cibo, sonno, occupazioni, routine): «La casa e tutto quel che c’era dentro ora era discesa al fondo della lenta spirale lungo la quale era sprofondata; obbediva compunta all’ordine del totale silenzio. Nella stanza di pino quadrata sul retro i corpi dell’uomo trentenne e della moglie e dei figli giacevano su piatti materassi sui loro letti di ferro e sul pavimento duro e dormivano, e il cane sdraiato dormiva nell’ingresso».

Possiamo chiamarla scrittura fotografica fermata – qui nella citazione – dalla camera da presa che continua a ruotare intorno nell’ambiente in cui sta agendo, intramezzata da storielle di vita contadina, elencazioni di nomi di piante e animali, e dal rimuginare continuo dello scrittore sulle implicazioni moralistiche e ideologiche del suo soggetto. Agee è un grande moralista, uno che rielabora filosoficamente l’ingiustizia sociale, senza esagerare in tempi sottoposti a censura, ma dove può affonda il pugnale nella carne viva del fallimento di un progetto che, originariamente, era stato forse troppo idealistico, non all’altezza degli uomini di Governo che hanno ecceduto, per cattiva amministrazione della terra, nei poteri loro consegnati. La catastrofe inviata calvinisticamente da Dio si fa metafisica: «Quella regione della terra in cui ci trovavamo a transitare a quest’epoca da qualche ora era caduta sotto l’incanto dell’ombra petrosa e costante del pianeta; e ora inclinava verso l’ultimo abisso».
Non si possono leggere in modo adeguato Erskine Caldwell, John Steinbeck, William Faulkner, Eudora Welthy, senza aver dato almeno un’occhiata a Sia lode ora a uomini di fama, che si chiude con la citazione biblica, tratta dall’Ecclesiastico, cui si ispira il titolo di un libro, alla fin fine, elegiaco: «Sia lode a uomini di fama, e ai nostri padri che ci generarono. (…) Col loro seme una buona stirpe rimarrà in perpetuo. Salde radici ha messo il loro seme. Seme che rimarrà per sempre, e la loro gloria non sarà cancellata. I loro corpi son sepolti in pace; ma il nome di loro vivrà per sempre».