Visioni

Nella cantina di Pinter

Nella cantina di Pinter

Teatro In scena fino al 28 giugno all'Out Off di Milano Il calapranzi di Harold Pinter per la regia Antonio Mingarelli

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 25 giugno 2015

Il calapranzi fu scritto da Harold Pinter nel 1957, debuttò tre anni dopo. Rubricata, forse troppo in fretta, come commedia, la pièce del premio nobel inglese poggia più che sul genere, non rispettato né nei tempi né negli sviluppi comici dell’azione, su quel gruppo disomogeneo di opere e autori che in quegli anni conobbero certa notorietà sotto l’etichetta del Teatro dell’Assurdo.

Di punta c’erano Beckett, Ionesco, Adamov; un gradino più giù Pinget, Mrozek, e altri. Un fenomeno che coinvolse scrittori, drammaturghi e registi in tutta Europa. In tale temperie intellettuale Pinter si collocava in scia di Samuel Beckett, maestro e amico riconosciuto e stimato così tanto che l’estrema apparizione pubblica del drammaturgo inglese fu proprio la messa in scena dell’”Ultimo nastro di Krapp” nel 2006 per le celebrazioni del centenario beckettiano. Proprio nell’imbuto “assurdo”, spostato da Pinter nell’afasia e incomunicabilità linguistica del quotidiano. In ciò sta la differenza con il suo mentore: i personaggi di Beckett sembrano galleggiare in un futuro prossimo venturo dai connotati spesso apocalittici. In Pinter “lo spazio bianco” non è la scena, ma il silenzio, le pause. L’ambiente è sempre collocabile in un presente, socialmente e politicamente individuabile. Sono queste le coordinate che condurranno al Pinter ultimo militante e politicamente estremo pur nella raffinatezza delle espressioni artistiche usate, soprattutto poesia e discorsi. Tutto questo sembra anticiparsi e restar sospeso nel “Calapranzi” nell’allestimento di scena al Teatro Out Off di Milano.

Gli interpreti sono Fabrizio Martorelli (Gus) e Alberto Onofrietti (Ben) diretti da Alberto Mingarelli, trio che ha consuetudine con il teatro di Pinter avendone già messo in scena Tradimenti e aver atteso inutilmente ad una versione de La collezione , testo poco frequentato che poteva solleticare nuove ipotesi critiche sul drammaturgo inglese e sugli allestimenti italiani. Nondimeno, Il calapranzi rappresenta uno di quei banchi di prova per attori giovani (Albanese e Paolo Rossi in altri tempi ci si fecero le ossa). Ma, si rammenta anche una recente versione di Ivana Monti “en travesti” al Teatro Franco Parenti per la rassegna “Pinter e dintorni”. Due killer professionisti Gus e Ben sono confinati in uno scantinato, forse una volta un bar, in attesa di “far fuori” la vittima predestinata.

Si comprende dai loro dialoghi (ad ascoltarli sembrano frammenti di monologhi con l’uno a far domande e a subire e l’altro a gesticolare e tentar di indirizzare i suoi comandi ad un fine sicuro) che fanno parte di una organizzazione ramificata nel potere ai più alti livelli e che ricevono ordini da un “nonsochi” strano personaggio che a volte li vezzeggia, più spesso però li maltratta o li ignora. La scoperta nella fatiscente camera di “un calapranzi” che sembra azionarsi da solo e che porta delle ordinazioni “assurde” innesca nei due uomini comportamenti contrastanti. Insomma, sia Gus sia Ben ben presto si rendono conto di essere spiazzati e forse intuiscono prima del finale a sorpresa che forse stanno per essere “fatti fuori” e quale migliore fine per loro se non ritrovarsi l’uno contro l’altro, dopo una vita l’un per l’altro.

 

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