Nel Westmarka, con la rabbia primigenia e consumante di Tollak
«Ingeborg, le dico. Sì, Tollak, risponde. È una sofferenza vivere senza di te, le dico. È una sofferenza essere morta senza di te, mi risponde. Allora sorrido un po’». È una storia cupissima quella che Tore Renberg racconta nel suo romanzo La mia Ingeborg (Fazi editore, pp. 179, euro 18, traduzione di Margherita Podestà Heir). Acclamato dalla critica, tradotto in diverse lingue, l’autore norvegese tiene insieme una scrittura contratta, rapidi cambiamenti stilistici che lo rendono prossimo a un canovaccio teatrale, e anfibio tra prosa e poesia. Il tema è la costruzione di un fulcro solipsistico, comune a tanta letteratura contemporanea. Protagonista è «Tollak di Ingeborg», così lo chiamano nel paesino immerso nei boschi del Westmarka, per segnare l’appartenenza a qualcuno.
QUEL «DI» TUTTAVIA restituisce un altro tipo di vicinanza proprietaria, per un uomo che ammette di arrivare «dal passato» e che, ormai avanti negli anni, ricorda la relazione d’amore con sua moglie. Una donna innamorata e socievole che verosimilmente avrebbe voluto solo vivere con un uomo meno ossessionato, da se stesso prima che da lei, capace di ascoltare la sua libertà, il suo desiderio di vivere. Tollak però è schiavo di una rabbia primigenia e degli alcolici di cui abusa per sedarsi, tanto da ripararsi talvolta in un rifugio di montagna, per evitare di fare danni. E seppure Renberg si periti di farci intendere la sua infanzia complessa, compresa l’affezione per Oddoloscemo, specchio scomodo di sconfitte psichiche paterne, la parabola è intuibile fin dalle prime righe. Si annusa, come la legna secca che Tollak non riesce più a vendere nella sua segheria, fuori dal mercato. La sparizione di Ingeborg è l’alibi di una conversazione ineluttabile e immaginaria con una morta. Ammazzata, per la precisione, messa in un portabagagli e seppellita in mezzo al nulla. Si scoprirà da chi e come. Anche se lo sanno tutti, in fondo. Compresi i figli, Jan Vidar e Hillevi.
LO SCRITTORE NORVEGESE è abile a imbastire il ritratto archetipico di un misantropo, un prodotto di un vetusto patriarcato che, per via di una lingua letteraria finissima, scava ogni cunicolo della mente spiegandoci come attecchisce il male, qui ipnotico e invischiante quanto basta. E mentre il mondo antico, delle «vecchie maniere», si sgretola, sembra di vederlo Tollak, nella sua impotenza e violenza, dimenarsi rozzamente, non riuscendo mai a suscitare tenerezza, neppure quando sputa sangue per un tumore allo stomaco.
La mia Ingeborg è un libro che non lascia scampo, sotto tanti punti di vista, a cominciare dalla lettura, impossibile da interrompere fino all’ultima pagina. Un grande e lungo monologo, con un protagonista che ci fa perlustrare cosa c’è di là dal baratro umano. E quanti strumenti siano a disposizione di ciascuno, quanti gli apparati giustificatori, per raccontare a se stessi qualcosa che sia in grado di smascherare le più imperdonabili nefandezze. Ancora più inaccettabili, se commesse in nome dell’amore.
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