Quali sono le prospettive del regionalismo italiano? Cosa accadrebbe se il disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata, già approvato in Senato e oggi in discussione alla Camera, dovesse entrare in vigore? Quali le ripercussioni sul terreno dei diritti, dei doveri di solidarietà e sull’unità della Repubblica?

La questione è attentamente analizzata nel recente volume di Francesco Pallante, Spezzare l’Italia. Le regioni come minaccia all’unità del Paese, Einaudi (pp. 144, euro 13). Un libro del quale si apprezza, in particolare, la chiarezza del linguaggio. Un linguaggio rigoroso, ma allo stesso tempo attento – anche quanto si affrontano le questioni tecnicamente più complesse – ad assecondare le esigenze di tutti lettori. Anche dei non addetti ai lavori e di chi giurista non è.

IL TIMORE DI FONDO che l’autore di questo volume, sin dalle prime pagine, ha inteso confidarci nasce dalla preoccupazione che un certo «scenario a breve scadenza» possa prendere corpo davanti ai nostri occhi: «Veneto Lombardia ed Emilia Romagna – le regioni più ricche del paese – mettono fine all’unità d’Italia… lo Stato si ritrova privo delle leve essenziali per realizzare politiche sociali, culturali, ambientali, economiche di respiro nazionale. La solidarietà nazionale va in frantumi e il tutto senza nemmeno il fastidio di dover cambiare la Costituzione. Come è stato possibile arrivare a tanto?».

È da questo interrogativo che la riflessone del costituzionalista torinese prende le mosse. Ne viene fuori una ricostruzione serrata nei suoi sviluppi e coesa sul piano argomentativo che affronta con lucidità e pathos quelli che sono stati i ripetuti cedimenti consumatisi, negli ultimi trent’anni, sul terreno storico e costituzionale. Una sorta di piano inclinato la cui genesi non discende semplicemente dalla revisione del titolo V. La riforma costituzionale del 2001 fu semmai l’esito, il disastroso epilogo di un processo ben più profondo e risalente nel tempo, del quale Pallante ci fornisce una descrizione storica particolarmente dettagliata: l’emersione del leghismo nelle regioni del Nord, tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso; l’irruzione del revisionismo craxiano; la costruzione del mito secessionista celebrato nelle adunate di Pontida; l’ intreccio venutosi, in quegli stessi anni, consolidando tra mercato, egoismo territoriale e retorica del capo: un ordito inedito che avrebbe trovato in Gianfranco Miglio un indiscusso interprete, non solo teorico; la rimozione della questione meridionale sacrificata sull’altare degli interessi economici delle ricche regioni del nord.

Un programma eversivo, sul piano costituzionale, proteso a compromettere l’ispirazione sociale della Repubblica, ma allo stesso tempo capace di sedurre ampia parte del mondo cattolico e finanche gli eredi del Pci. Si arrivò così alla riforma del nuovo titolo V: voluta, sostenuta e approvata in Parlamento dalla maggioranza di centrosinistra.

UNA RIFORMA SBAGLIATA e dagli esiti fallimentari come è oggi riconosciuto – pressoché unanimemente – da tutti i principali attori politici, economici e sociali del Paese. Le falle della revisione del 2001 sono oggi sotto i nostri occhi. Fra queste l’introduzione insidiosa e pasticciata, al terzo comma dell’art. 116 Cost., di una nuova forma di autonomia regionale (oltre quella ordinaria e speciale): l’autonomia differenziata.

Nel volume di Francesco Pallante tutto si tiene (forma di Stato e forma di governo, diritti e doveri costituzionali, regionalismo e ruolo dello Stato unitario) e tutto si dipana all’interno di un impianto serrato e coeso che, pagina dopo pagina, tende sempre più ad assumere le forme e i contenuti di un accorato j’accuse contro lo stato della Repubblica e contro una politica debole e improvvisata: una politica senza cultura, senza idee, senza progetto. E che preda dell’ideologia del maggioritario ha via via smarrito, nel corso del tempo, anche l’idem sentire de republica.

Pallante – è bene chiarirlo – non è mai stato uno studioso pregiudizialmente ostile alle regioni: ai suoi occhi «le regioni non sono un male. Ma nemmeno un bene. Sono – devono essere – istituzioni rivolte, come tutte le istituzioni che compongono la Repubblica, al conseguimento dell’obiettivo ultimo della Costituzione: il pieno sviluppo della persona umana, condizione necessaria affinché tutti possano effettivamente partecipare alla vita politica, economica e sociale del Paese».

Condizione, questa, che i progetti in discussione in Parlamento rischiano oggi definitivamente di travolgere. Né un efficace valvola di compensazione potrebbe, in questo quadro, essere costituita dall’attivazione dei Lep, come una certa vulgata venutasi affermando – a destra e a sinistra – vorrebbe oggi farci intendere.

L’INTRODUZIONE DEI LIVELLI essenziali di prestazione – veicolata dalla lett. m) del novellato art. 117 Cost. – rappresenta, ancora oggi, uno dei punti maggiormente criticabili della riforma del titolo V della Costituzione, soprattutto per le ricadute gravi e pregiudizievoli che questa nozione tende fatalmente a innescare sul terreno dell’eguaglianza dei diritti e quindi dell’unità giuridica ed economica della Repubblica. Un espediente terminologico promiscuo, ripetutamente impiegato dal legislatore sin dagli anni Novanta. E il cui tenore letterale – come precisato dallo stesso giudice costituzionale – allude fatalmente all’obbligo posto a carico dello Stato di determinare un «accettabile livello qualitativo e quantitativo di prestazioni» (sent. 335/1993). Nulla di meno, ma neppure nulla di più.

DI QUI L’INEVITABILE ristrettezza dei margini di oscillazione delle politiche di previsione e determinazione dei livelli essenziali di prestazione. Margini sempre più compressi dai vincoli finanziari e dalle strozzature di bilancio, derivanti in buona parte dalla maldestra revisione dell’art. 81 Cost. Una riforma la cui applicazione è destinata oggi a ripercuotersi drammaticamente sul terreno delle garanzie sociali e dei diritti, con il risultato di rendere i livelli essenziali ancora più essenziali.

Ora, in un assetto sociale così debole e farraginoso, «che qualcuno possa seriamente pensare di risolvere lo scarto che da sempre esiste tra la proclamazione dei diritti e la loro attuazione tramite una serie di addizioni lascia increduli. E, in effetti, nel solo ambito in cui i Lep già sono operativi da alcuni decenni, quello della tutela della salute – segnala Pallante – il risultato è lontanissimo dall’uguaglianza, seppure minima. È la prova che i Lep non funzionano e che ciò che avrebbe dovuto essere un ’pavimento’ al di sotto del quale non andare è diventato un ’soffitto’ al quale ambire».

NE DISCENDE che il sistema dei Lep, così come configurato in Costituzione e soprattutto nell’ultima legge di bilancio, più che arginare i devastanti effetti dell’autonomia differenziata, rischia oggi di alimentarli a dismisura, inasprendo la competizione territoriale tra regioni e aree del Paese.

La questione dell’autonomia differenziata non allude pertanto a un’asettica scelta verso un modello o un altro di regionalismo. Come si vede, le questioni sono molto più complesse e delicate e coinvolgono direttamente la capacità di tenuta delle garanzie costituzionali, l’unità della Repubblica, le forme del conflitto sociale. Ecco perché «fermare oggi l’autonomia regionale differenziata significa dare un contributo per impedire il compimento del disegno in atto. E, forse, avviare finalmente un’inversione di rotta».

Ma per poter perseguire efficacemente questo obiettivo – ammonisce l’autore – è necessario «l’apporto di tutte le forze che hanno a cuore la tenuta della Repubblica così come configurata dai principi costituzionali fondamentali». A cominciare dalla difesa della sua unità e indivisibilità (art. 5 Cost.).