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Nel viaggio violento e drammatico alla ricerca di sé

Nel viaggio violento  e drammatico alla ricerca di séIsolotto sperduto / foto Ap

NARRATIVA «Un’isola», un romanzo della scrittrice sudafricana Karen Jennings tradotto in Italia per le edizioni Fazi

Pubblicato circa un anno faEdizione del 23 agosto 2023

Un’isola non è il primo romanzo della scrittrice sudafricana Karen Jennings bensì il primo a essere pubblicato in Italia da Fazi (pp. 192, euro 18, traduzione di Monica Pareschi) dopo la nomina nel 2021 nella rosa dei finalisti al Booker Prize, grazie al quale ha ottenuto una visibilità e un successo insperati, viste la resistenza incontrata nella ricerca di una casa editrice (specie in Sudafrica) nonché le difficoltà sopraggiunte in seguito alla situazione pandemica (la prima pubblicazione risale al 2020). Giudicato inizialmente un manoscritto «troppo» o al contrario «non abbastanza» africano, Un’isola è invece una profonda riflessione sulle dinamiche del potere in un paese devastato dal colonialismo; ma, allo stesso tempo, non è solamente un romanzo ambientato in Africa. Jennings infatti decide di non fare nomi, e si riferisce genericamente a un Presidente, un Dittatore, un Palazzo, conferendo così alla storia un aspetto reale e insieme allegorico, universale.

LA SCELTA STESSA di ambientare il romanzo su un’isola deserta va in questa direzione: è la storia del vecchio Samuel che, dopo aver vissuto una vita ai margini e trascorso venticinque anni in prigione, accetta l’incarico di guardiano del faro di un’isola e per vent’anni intrattiene le sue uniche relazioni con gli uomini dei rifornimenti e le galline: in particolare con una più piccola delle altre, di colore rosso, che avrà nella storia un ruolo significativo.
Nel tentativo di addomesticare l’isola e di creare una barriera tra sé e il mondo, Samuel ne ha fortificato il perimetro con un muro che tuttavia si rivela più fragile del previsto a causa del l’impeto del mare e dei cadaveri che lo stesso mare gli va restituendo: corpi che nessuno è più interessato a riconoscere e che Samuel seppellisce nella parte esterna del muro. L’ultimo cadavere però è vivo, e Samuel ne è turbato: «Erano i peli di un animale appena nato o di un neonato rimasto troppo tempo nel grembo materno. Che cosa aveva partorito il mare lì, su quei sassi?». Qui Samuel ricorda Cruso del Foe di Coetzee, quando guarda la naufraga Susan Barton quasi fosse «un pesce gettato a riva dalle onde, piuttosto che una creatura sventurata simile a lui». E sempre a Coetzee, all’essenzialità scabra della sua lingua, sembra rimandare la prosa asciutta di Jennings (impeccabilmente tradotta da Monica Pareschi) in cui ogni parola è misurata, lungamente scelta, anche nella sua posizione, come spiega in un’intervista l’autrice che, precisa, ama scrivere a mano le proprie storie.
Sin dalle prime pagine si disegna il tema dello straniero, insieme vittima e intruso, e di cui fino alla fine non si conoscerà la storia. Infatti, sebbene all’inizio l’uomo riveli il proprio nome e Samuel cerchi addirittura di pronunciarlo, quell’uomo continuerà ad essere soltanto un uomo, un corpo respinto tra tanti. Sarà proprio la sua corporeità a respingere Samuel.

A NON LENIRE il suo turbamento è quell’immagine allucinata del neonato che, intravista nel mare, sembra anticipare quella del figlio Lesi, evocata poi ripetutamente nel romanzo. Più facile, invece, tenersi a distanza, e disfarsi dei corpi sullo schermo minuscolo del telefonino che uno degli uomini gli passa per mostrargli il naufragio di un barcone di profughi.
Samuel guarda due volte, cercando invano di riconoscere la faccia dell’uomo: «Passò una visione confusa di capelli, una lunga scia castano chiaro, un attimo dopo scomparve. Nessun suono da chi stava riprendendo la scena. Non un ansito, un singhiozzo».

INSIEME AL RACCONTO della impossibile convivenza tra Samuel e l’uomo, nel tempo di quattro giorni, scanditi da brevi capitoli, Karen Jennings ricostruisce il vissuto doloroso del protagonista con continui flashback magistralmente incastonati in una narrazione che si fa sempre più intensa, cupa, necessariamente dura. Del resto tutto il romanzo ruota intorno al tema della violenza, di una violenza che genera violenza, da cui nessuna gallina rossa, nessun neonato riescono a proteggerci, e dove l’unico gesto possibile sembra quello arcaico e feroce suggerito dalle mazze e dalle asce con cui rivendicare la propria terra, difendersi dai fantasmi del passato, e soprattutto da sé stessi.

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