Visioni

Nel vaso di Pandora di Craig Taborn

Nel vaso di Pandora di Craig TabornCraig Taborn – foto di Ariele Monti

Live Il pianoforte dell'artista americano protagonista all'Area Sismica

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 4 maggio 2022

Un cluster sospeso nel buio, frammenti di un discorso che prende forma tra spigoli e specchi rotti dove si riflettono ombre di una storia che incespica, avanza: una sincope, un inizio di fuga a sancire un mood austero, teso e sorvegliato che poco concede a cenni di languore. Craig Taborn, uno degli interpreti cruciali del jazz, in quel luogo del cuore che è Area Sismica: calamita per un pubblico attento e appassionato, composto anche da musicisti ansiosi di vedere in azione il pianista di Minneapolis. Cinquantaduenne, Taborn è interprete e compositore eclettico, colto e dotato di un estro travolgente, capace di esprimersi compiutamente in progetti distanti tra loro come Junk Magic, dove attinge al mare magnum dell’elettronica, il quartetto acustico (Daylight Ghosts, 2016, su Ecm), o il duo con il collega di strumento Vijay Iyer. Il concerto in solo è dove si staglia, cristallina, la sua statura: trasporta ad altezze vertiginose, trascinando in un viaggio dantesco che dagli abissi ci eleva fino a quote siderali. In un flusso dove costruzione, decostruzione, direzione e deragliamento cospirano felicemente alla creazione, come in un fiume carsico dove a tratti affiorano in superficie rivoli tematici. Allo sviluppo melodico per buona parte del recital Taborn preferisce un procedere enigmatico, quasi filosofico, denso di un lirismo corrusco, pensoso, come un cielo grigio in un quadro di Turner.

TRA TEMPESTE dissonanti il discorso di rado si scioglie in nuclei tematici cantabili: poi, dopo la bufera, un carillon celeste ad accennare un loop che sfuma in un istante, quasi vapore acqueo; un andamento ipnotico e circolare come un racconto di Cortázar, un’architettura invisibile e monumentale di vortici. Nel suo pianismo enciclopedico e torrenziale si possono scorgere istanze diverse e sfuggenti, che si rapprendono momentanemente in mille forme, attingendo alla tradizione afroamericana, alla musica classica, ad ansie atonali. A un tratto pare di ascoltare il suono di un pianeta senza gravità: un pugno di note a sondarne l’abilitabilità. A seguire una delicata autopsia sul corpo dello strumento, sfregando le corde, inseguendo ombre, fantasmi: il pianoforte come Moby Dick, l’interprete come Achab a tentare l’impresa di catturare l’indicibile. Mondi rarefatti e lontanissimi dove si incontrano Bach e George Crumb, terrigne nevrosi africane, Cecil Taylor e Duke Ellington riflesso su uno schermo esploso in mille frammenti. Momenti di caotica, feroce perfezione come polvere di sinfonia che il solista raccoglie setacciando il fiume della musica creativa, mentre gli acuti con la mano destra sono unghie a grattare il cielo del Novecento.  Nel bis le nubi si diradano e lasciano spazio al sole di una ballad trafitta di nuovo dai lampi di una musicalità che erompe e tracima, come un  baccanale blues tra fuochi d’artificio a New Orleans. A furor di popolo giunge anche un secondo bis, con uno splendido omaggio a Sun Ra. Il pianoforte di Craig Taborn è un’orchestra, la sua arte un vaso di Pandora.


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