C’era forte aspettativa attorno a questi ottantunesimi Golden Globes e il parterre di nominees al completo ha confermato l’adesione dello star system e soprattutto del complesso industriale hollywoodiano ai primi premi che dovevano sancire il «comeback» post-pandemico nell’anno di Barbieheimer. Gli incassi americani per il 2023 sono rimbalzati a 9 miliardi di dollari complessivi, ancora due miliardi in meno dei livelli pre-covid, ma tutto sommato niente male per un formato, il cinema in sala, che alcuni davano per spacciato. 24 film oltre i 100 miliardi di box office, otto sopra i 200 milioni, sono numeri confortanti per un’industria che coi Globes doveva anche tornare a proiettare un senso di normalità dopo gli scioperi che l’hanno paralizzata per sei mesi.

DOPO L’ULTIMO annus horribilis è stato quindi un sollievo catartico tornare a concentrarsi sui pronostici e poi sulle alchimie innescate dalle statuette dorate che aprono la «award season», il trimestre di autocelebrazione che culminerà negli Oscar a marzo. Da questo punto di vista la giuria internazionale dei Globes ha soprattutto consacrato Oppenheimer come grande favorito, scegliendolo come legittimo film d’autore (miglior film drammatico, musiche, regia, Cillian Murphy protagonista e Robert Downey Jr. supporting). Barbie invece è stata limitata ad un premio per migliore canzone (What was I made for di Billie Eilish) e relegata a bionda reginetta del box office col premio poco lusinghiero nella nuova categoria «nazionalpopolare» per i campioni di incassi.
Ridimensionato anche il film di Scorsese, Killers of the Flower Moon, che si accontenta del premio «storico» a Lily Gladstone (tribù dei Piedi Neri), prima nativa a vincere un premio a Hollywood ma non va oltre. Buon piazzamento nella pole invece per Povere creature di Yorgos Lanthimos coi meritati premi per migliore commedia e migliore attrice (Emma Stone) e per il coming-of-age dal retrogusto anni settanta, Holdovers, di Alexander Payne che ha vinto con gli attori Paul Giamatti e Da’Vine Joy Randolph.Due premi, ma in questo caso diremmo valgono doppio, per Anatomia di una caduta. Il congegno ad orologeria poliglotta di Justine Triet si è aggiudicato la statuetta per la sceneggiatura oltre al premio per miglior film straniero. I risultati normalmente catapulterebbero il film a superfavorito per un Oscar straniero, ma in questo caso non concorre dato che non è stato presentato dall’associazione produttori francesi. Potenzialmente in lizza per le nomination dell’Academy (annunciate il 23 gennaio) rimane Io Capitano di Matteo Garrone, come anche Foglie al vento di Kaurismaki e La zona d’interesse di Jonathan Glazer, fra gli «sconfitti» di domenica. Nel reparto tv/streaming si sono ripetute prevedibili celebrazioni di Succession e The Bear.Barbie invece è stata limitata ad un premio per migliore canzone (What was I made for di Billie Eilish) e relegata a bionda reginetta del box office col premio poco lusinghiero nella nuova categoria «nazionalpopolare» per i campioni di incassi.

SE L’OBBIETTIVO era di tornare alla normale amministrazione questo è stato centrato, ma nella celebrazione è stato innegabile anche un diffuso senso di disagio. Lo show era anche prova di riabilitazione dei Globes dopo la crisi che ha rischiato di cancellarli da panorama hollywoodiano. Si è trattato della prima edizione dei premi «privatizzati», comprati dalla Eldridge corporation, tentacolare holding che ha dissolto l’associazione della stampa estera che li ha gestiti per 80 anni e assunto i giornalisti come dipendenti pagati per votare. Una visione «aziendale» che ha «ripulito» lo spettacolo di ogni trasgressione, restituendo uno show blando e anemico. E soprattutto incapace di dare una risposta alla domanda più pressante sul futuro dei premi in generale e la (ir)rilevanza del complesso industriale-promozionale che in epoca Tik Tok stenta a trovare una risposta al crollo verticale degli ascolti che affligge non solo i Globes, ma lo stesso format dei premi.