«Ozu sapeva come portare un cappello floscio. Dopo la guerra, quando giravamo più spesso in esterni, e in piena estate, ha iniziato a mettersi il cappello di piquet e la camicia di lino che tutti conoscono. Prima della guerra, invece, aveva sempre un vestito di lino bianco molto elegante. Era alto e quando camminava in compagnia di modern girls come Satoko Date o Yukiko Inoue era davvero molto affascinante». Queste parole sono di Yuharu Atsuta, tradotte dal giapponese e pubblicate anni fa (era il 2001) su cinéma 0, rivista uscita in Francia per pochi e preziosi numeri (questo è il 2) diretta dal critico e storico Bernard Eisenchitz (edizioni Leo Scheer).

La figura di Ozu che prende vita nel racconto di Yuharu Atsuta, il suo inseparabile (e geniale) direttore della fotografia, rivela con un sentimento di semplice profondità molto vicino a quello che ne attraversa l’arte la «vita al lavoro» del regista nato a Tokyo nel 1903 che diventerà un riferimento fondante per il cinema moderno. Atsuta mescola la dimensione di un fare vissuto «dall’interno» a osservazioni affettuose su un uomo i cui tratti essenziali diventano, appunto, segni di cinema. «Quando Ozu incrociava lo sguardo di una persona che vedeva per la prima volta, distoglieva sempre gli occhi. Per timidezza. All’inizio era a disagio con chiunque … Se fosse stato sposato forse sarebbe stato diverso, ma è rimasto celibe, e questo lo rendeva attraente».

E ancora: «La posizione bassa della macchina da presa, cara a Ozu, non permetteva dei lunghi piani-sequenza. Si doveva creare un ritmo nell’avvicendarsi di piani ravvicinati, medi, e del controcampo. La durata di ogni inquadratura era perciò molto importante… Ozu dipingeva, privilegiava la composizione. Un giorno mentre stavo guardando le illustrazioni di una rivista gli ho detto: ‘È raro che qualcuno dipinga da un punto di vista poco elevato come fa lei. E lui mi ha risposto: ’È molto difficile, ecco perché l’ho scelto».

Scopriamo poi che Ozu si occupava sempre personalmente dei sopralluoghi – «anche per girare l’inquadratura di un treno». Insieme lui e il regista andavano in giro per Tokyo dalla mattina alla sera, e Ozu era «sempre in forma». «A volte non sentivo le gambe ma lui diceva: ’Camminiamo ancora un po’ e andavamo avanti finché non trovavamo il posto che aveva in mente’.
Entrambi erano affascinati dai tram e condividevano l’idea di riprenderli sempre in esterni, mai in studio. Quando Ozu è morto era inverno ma il cielo era limpido, lui nel quartiere di Ochanomizu dove si trovava l’ospedale in cui è deceduto ha preferito non tornarci più.
«È strano, se penso a quel giorno ricordo solo i raggi del sole. A Ozu sarebbe piaciuta quella luce».

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E se gli chiedono quale è il film di Ozu che preferisce risponde: «Viaggio a Tokyo. Ozu e l’equipe erano totalmente dentro al film. A quell’epoca avevo ancora poca esperienza, ho girato ogni inquadratura con tutto il mio cuore».
Viaggio a Tokyo – titolo originale Tokyo monogatari – uno dei must nelle tarde notti di Fuori orario, che Wenders omaggia nel suo Tokyo-Ga cercando le tracce dell’amato maestro tanti anni dopo (1985) tra ricordi e giocatori di pachinko – è tornato ora in sala, primo di sei titoli tutti imperdibili del magnifico regista giapponese che la Tucker film distribuisce nella versione restaurata in diverse città italiane – per il calendario: www.tuckerfilm.com.

Seguiranno Tarda primavera (1949), Fiori d’equinozio (1958), Buon giorno (1959), Tardo autunno (1960), Il gusto del saké (1962).
Il viaggio del titolo è quello di un’anziana coppia, Shukichi et Tomi, che lasciano la cittadina sul mare nel sud dell’arcipelago, dove hanno sempre vissuto per passare qualche giorno nella capitale. Li spinge il desiderio di ritrovare i figli ormai cresciuti, che da quando sono andati a vivere a Tokyo vedono pochissimo. I due giovani però, fratello e sorella, sono troppo occupati col lavoro, la propria famiglia per prendersi cura dei genitori il cui arrivo anzi è vissuto quasi come una seccatura. L’unica che sembra essere contenta di passare del tempo con loro è Noriko – Sestuko Hara la modern girl di cui sopra, attrice di punta della «famiglia» di Ozu – vedova di un altro figlio morto in guerra – e nel ruolo del protagonista c’è Chishu Ryu che ha recitato in tutti i film del regista.
Poteva essere un melò di lacrime, è un soffio impalpabile in cui scorre il senso della vita coi suoi gesti mancati, o rimandati, e la malinconia della sua ineluttabilità. E si piange, il groppo alla gola è forte ogni volta che lo si rivede pure se si conosce a memoria.

I due protagonisti sussurrano pacati, non sembrano mai arrabbiarsi o mostrarsi offesi, sono al contrario felici che i figli hanno un’esistenza così piena. Non siamo nel manicheismo di giovani-contro-vecchi (o viceversa), né Ozu mette sotto accusa una generazione che pure appare fredda, preoccupata solo dei soldi e delle carriere.

La sua modernità è quel tocco delicato con cui rispetta ogni personaggio cercando di motivarne le ragioni. Nel suo sguardo ad altezza di tatami scopriamo, e con stupore, un sentimento universale, e sempre contemporaneo, che è appunto il movimento dell’esistenza. Lungo l’orizzonte del tempo che passa Ozu lascia entrare la Storia, il presente della sua epoca di cui la digregazione della famiglia diviene una caratteristica eloquente. Siamo nel Giappone del dopoguerra che deve riscattare la sua sconfitta, che spinge per la rinascita, il boom dell’economia, la macchina perfetta che deve rimuovere la sconfitta.

Ricordate i cyborg Tetsuo di Tsukamoto, creature in cui si impastavano carne e metallo, metafora di un’efficienza disumanizzante?Ecco, lì, nella fragile e commuovente relazione dei due vecchietti di Ozu che sembrano arrivare da un altro tempo – il tempo del piacere, il tempo della scoperta, il tempo per sé e per gli altri prima di farsi inghiottire dalla macchina balena una impossibile resistenza. Quel tempo che ci sfiora e che il cinema talvolta riesce ancora a restituire.